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Altro che made in Italy, abbiamo svenduto un Paese

C'era una volta il made in Italy. In realtà esiste ancora, solo che ha cambiato significato: i nostri prodotti vanno sempre alla grande, solo che le imprese italiane vengono acquistate dai colossi internazionali. Dall'alimentare all'abbigliamento passando per il pubblico, è un mutamento non solo economico, segno di un cambio di rotta radicale: l'Italia, probabilmente, non è più una potenza mondiale. Tutt'altro. Ecco l'articolo integrale del sito nientedipersonale.com.

 

L’Italia è sempre stata terra di conquista. L’unica vera differenza tra ciò che è avvenuto nei secoli scorsi e ciò che avviene da qualche anno a questa parte è che prima le invasioni e le dominazioni erano principalmente politiche. Oggi, invece, ad essere conquistate sono le risorse economiche: le aziende.

L’elenco dei marchi italiani che operano ancora nel Belpaese, ma che sono sotto il controllo di Multinazionali o di aziende estere è interminabile. E continua a crescere di giorno in giorno. Fatta eccezione per le aziende artigiane che cercano di sopravvivere alla concorrenza delle grandi industrie (e che in questo non hanno ricevuto alcun aiuto da parte dei governi), ormai non c’è più prodotto made in Italy per il quale gli utili prodotti non finiscano nelle ‘casse’ di qualche multinazionale all’estero. Sono centinaia (se non migliaia) ad aver approfittato del momento di difficoltà economica causato da scelte politiche sbagliate e che oggi godono del valore aggiunto derivante dal mettere sui mercati esteri un “prodotto italiano”.

Ormai non esiste settore che non sia stato attaccato dalle holding straniere. Secondo i dati riportati nello studio “L’impatto delle acquisizioni dall’estero sulla performance delle imprese italiane”, realizzato da Prometeia per conto dell’ICE, sono più di cinquecento le imprese italiane – compresi anche alcuni marchi spiccatamente simbolo del made in Italy come Valentino – che, dall’inizio degli anni 2000 ad oggi, sono già passate sotto il controllo estero. Un processo che riguarda sia aziende a compartecipazione pubblica, sia aziende private. Telecom è stata venduta agli spagnoli (che recentemente l’hanno passata ai francesi di Vivendi), Alitalia è sotto il controllo dei francesi e degli arabi di Etihad, Enel nel 2005 ha ceduto la quota di maggioranza di Wind Telecomunicazioni ad una società di telecomunicazioni delle Bermuda. La Fiat Ferroviaria è controllata dalla francese Alstom (dal 2000), mentre, da quest’anno, Ansaldo Breda e il 40 per cento di Ansaldo Sts sono passati da Finmeccanica alla giapponeseHitachi. State Grid of China ormai controlla Cdp Reti, che a sua volta controlla Terna e Snam. E nel 2014 il Fondo Strategico Italiano ha ceduto alla Shanghai Electric il 40% di Ansaldo Energia (per un’inezia: 400 milioni di Euro), azione tutt’altro che astuta dato che l’azienda ex Finmeccanica è di importanza strategica per il settore energetico.

Ancora peggiore, se possibile, la situazione per le aziende private. A cominciare dagli alimentari, un tempo vanto e orgoglio del made in Italy. Nei giorni scorsi è scoppiato lo scandalo dell’olio d’oliva extra vergine. Alcuni dei marchi storici accusati di avere venduto per olio extravergine d’oliva non si sa bene cosa, non sono più italiani: Carapelli fa parte del gruppo spagnolo Deoleo (dal 2008) e cosi pure Sasso, Bertolli e Friol.

A ben guardare quasi tutti i marchi famosi e tradizione della cucina italiana sono sotto il controllo di aziende estere. A cominciare da Barilla e Plasmon (vendute agli americani), Algida (che è proprietà di Unilever una società anglo-olandese), Pernigotti (un tempo dei fratelli Averna e ora sotto il controllo dei turchi Toksoz).

Moltissimi i marchi storici finiti nel cassetto della svizzera Nestlè: da Perugina a Vismara, da Pezzullo, Berni a Italgel, da Gelati Motta a Valle degli Orti, da Surgela a Cremeria, da Maggi a  Marefresco, da Voglia di Pizza a Oggi in Tavola, da Antica Gelateria del Corso a Fruttolo. E ancora Buitoni, San Pellegrino, Levissima, Recoaro, Vera e San Bernardo.

E non finisce qui: le bollicine dello spumante Gancia sono sotto il controllo russo di Rustam Tariko. Galbani, Locatelli, Invernizzi e Cademartori sono della francese Lactalis che, nel 2011, ha comprato anche Parmalat. Kraft Foods, che di recente ha cambiato nome in Mondelēz International, la più grande azienda alimentare dell’America settentrionale (seconda multinazionale alimentare al mondo), controlla Fattorie Osella, Invernizzi (rivenduta nel 2003 alla francese Lactalis), Negroni, Simmenthal, Gruppo Fini, Splendid e Saiwa.

Il “sapore italiano” del brodo Star è prodotto da un’azienda per il 75 per cento nelle mani della spagnola Galina Blanca. Stessa cosa per i Salumi Fiorucci (dal 2011 in mano agli spagnoli di Campofrio Food Holding). La birra “italiana”, la Peroni, è stata comperata, nel 2003, dalla sudafricana Sabmiller per poi passare, pochi anni dopo, alla belga InBev. Ma non basta, Orzo Bimbo è controllata da Nutrition&Santè di Novartis. Il  Chianti, ormai, è cinese.Eskigel, che produce gelati in vaschetta per molti dei supermercati presenti in Italia, è sotto il controllo degli inglesi e di alcune banche. Alle Fattorie (canta lo spot) Scaldasole si “parla” francese (l’azienda è controllata da Andros).

Cosa c’è di più “italiano” dei capi d’alta moda, un settore che, fino a non molti anni fa, era il vanto e l’orgoglio del Belpaese? Ebbene, anche qui di italiano è rimasto ben poco: dopo anni di rapporti proficui con la Cina, Krizia ha ceduto il marchio alla cinese Shenzen Marisfrolg Fashion Co. La giapponese Itochu Corporation prima ha assunto il controllo di molti marchi italiani per poi rivenderli ad altre aziende straniere: Mila Schön e ancora Conbipel(passato nel 2007 agli statunitensi dell’Oaktree Capital Management), Sergio Tacchini (2007 ai cinesi dell’Hembly International Holdings), Fila (2007 ai sudcoreani di Fila Korea), Belfe e Lario (2010 ai sudcoreani di E-Land),Mandarina Duck (2011 ai sudcoreani di E-Land), Coccinelle (2012 ai sudcoreani di E-Land), Safilo (2010 agli olandesi della Hal Holding), Miss Sixty-Energie, Lumberjack e Valentino S.p.A. (passate tutte nel 2012 al Crescent Hidepark con sede a Singapore).

Sembra quasi che i più famosi marchi italiani non siano più aziende: sono diventati merce di scambio. Passano da un proprietario estero all’altro con la facilità di un click. Quello che serve per acquistare (o vendere) le loro azioni. A chi preme quel tasto non importa se dietro quelle azioni ci sono persone, storia, tradizioni e cultura. Come nel caso dei prodotti in cachemire di Loro Piana, un tempo fiore all’occhiello del made in Italy e ora controllate dalla holding francese Lvmh, che è titolare anche di Bulgari. Un’altra azienda straniera, Kering, controlla marchi come Gucci, Pomellato, Dodo e molti altri. Valentino è finito in mani arabe (Mayhoola Investments del Qatar) mentre Gianfranco Ferrè in quelle di Paris Group (che non è francese, ma degli Emirati Arabi). Anche La Rinascente non è più italiana: appartiene alla thailandese Central Group of Companies.

Ogni giorno il Freccia Rossa viene presentato in tv come l’orgoglio italiano, ma nessuno dice che ad esserne proprietari sono i giapponesi dell’Hitachi che, tanto per gradire, hanno comprato anche l’Ansaldo Breda che i treni li produce. Pirelli è stata venduta alla ChemChina e pare che siano in corso trattative per vendere anche l’Ilva di Taranto (commissariata da Renzi) al miglior offerente tra Arcelor Mittal, colosso franco-indiano, e Jindal altro gruppo indiano.

Secondo lo studio condotto da Prometeia questa “internazionalizzazione” sarebbe un fattore positivo: avrebbe permesso alle aziende presenti sul territorio di rimanere attive. Anzi, di aumentare il proprio fatturato (che, dalla fine degli anni Novanta ad oggi, sarebbe cresciuto del 2,8 per cento l’anno) e la produttività (dell’1,4 per cento). Per gli analisti di Prometeia, una volta “divenute parte di gruppi multinazionali, le imprese (italiane ndr) sono cresciute sul fronte delle vendite, per esempio servendo nuovi mercati, o più produttive, adottando migliori sistemi di organizzazione del lavoro”. Il passaggio di queste aziende nelle mani di gruppi esteri “non ha affatto penalizzato la dimensione occupazionale. Al contrario, nuovi capitali e guadagni di quota di mercato hanno consentito di aumentare il numero di lavoratori impiegati e quindi migliorato il rapporto dell’impresa con il suo territorio di riferimento”. Una tesi confermata dal governo: Carlo Calenda, viceministro del Commercio estero, ha detto: “Nel settore del made in Italy gli investitori stranieri comprano perché capiscono che c’è un grande potenziale di crescita che deriva proprio dall’italianità delle produzioni e del know how che non mancano di difendere e potenziare”.

La verità, però, potrebbe essere un’altra: gli investitori comprano perché speculare sui marchi italiani conviene. E quello che Calenda definisce “potenziale di crescita”, è in realtà il risultato di una crisi economico-finanziaria che molti pensano essere stata creata proprio per questo scopo. “Oggi – ha aggiunto il vice ministro – politica industriale vuol dire rimuovere gli innumerevoli vincoli che rendono quasi impossibile fare impresa in Italia”.

Forse lui non lo sa, ma la stragrande maggioranza delle imprese italiane non è “industria”. Sono piccole e medie imprese e artigiani. Soggetti economici che non interessano alle grandi multinazionali e che, forse proprio per questo, non sono mai state oggetto delle manovre e delle decisioni politiche dei governi che si sono succeduti (chi non ricorda le polemiche a proposito dell’articolo 18, che in realtà interessava poche grandi industrie e che non serviva alla stragrande maggioranza delle imprese e dei lavoratori). E ammesso che sia vero che la crescita tanto auspicata dallo studio commissionato dall’ICE abbia prodotto dei benefici, è pur vero (ma questo ovviamente il rapporto non lo dice) che questi utili quasi sempre sono finiti all’estero, nelle casseforti delle multinazionali straniere (che, infatti, secondo alcuni studi, come confermano le pressioni per la stipula di accordi come il TTIP o il TPP) ormai hanno un potere pari o superiore a quello di molti Paesi del mondo.

Utili prodotti grazie alla carneficina di marchi che non sono più rappresentativi del made in Italy, ma solo oggetto di speculazione e di affari da parte di investitori internazionali che li usano come merce di scambio o li vendono e svendono a seconda del loro andamento in Borsa o dei propri bisogni finanziari. Incuranti del fatto che, alle spalle di questi nomi, ci sono decenni o, in qualche caso, secoli di storia italiana. Anche il marchio storico dell’automobilismo italiano, la Ferrari, non è stata quotata alla Borsa di Milano, ma a quella di New York e messa a disposizione degli investitori stranieri.

Molti fingono di non averlo capito, ma ormai anche gli ultimi baluardi del made in Italy rischiano di scomparire per sempre.

Ci fu un tempo in cui i conquistatori del Belpaese arraffavano tutto ciò che potevano e lo portavano altrove (ancora oggi si sta cercando di riportare in Italia moltissime opere d’arte). Oggi i “nuovi” conquistatori hanno capito che è più redditizio accaparrarsi i marchi italiani e vendere all’estero oggetti con su scritto made in Italy.

Fausto Rossi