Si dice Arancino o Arancina? Ecco la risposta.
- Quando si parla di street food siciliano, c’è una grande, unica domanda che non ha ancora trovato risposta.
- A essere messa in discussione non è certo la bontà delle ricette.
- Si tratta, invece, di una diatriba che oppone Palermo e Catania, legata al genere di una delle preparazioni più amate.
Il cibo da strada siciliano è un eccellente argomento di discussione. Se ne parla spesso e volentieri, soprattutto per la bontà delle sue ricette. Tra gli argomenti più “caldi”, però, ce n’è uno che proprio non riesce a trovare una conclusione: si dice Arancino o Arancina? La diatriba gastronomica oppone le città di Catania e Palermo. Nel capoluogo, infatti, l’arancina è femmina, mentre nella città etnea è maschio. A cercare di portare un po’ di ordine è stata l’Accademia della Crusca, che ha spiegato le origini delle due varianti.
Origini
Le origini di questa pietanza si vorrebbero far risalire al tempo della dominazione araba in Sicilia. Gli arabi avevano l’abitudine di appallottolare un po’ di riso allo zafferano nel palmo della mano, per poi condirlo con la carne di agnello prima di mangiarlo. Una pallina di riso, dunque, con la forma di una piccola arancia (< ar. nāranj). Come si legge nel Liber de ferculis di Giambonino da Cremona (curato da Anna Martellotti, 2001), tutte le polpette tondeggianti nel mondo arabo prendevano il nome dalla frutta a cui potevano essere assimilate per forma e dimensioni (arance ma anche albicocche, datteri, nocciole); il paragone con le arance era naturale in Sicilia dato che l’isola ne è sempre stata ricca. In realtà non ci sono tracce di questa preparazione nella letteratura, nelle cronache, nei diari, nei dizionari, nei testi etnografici, nei ricettari e così via prima della seconda metà del XIX secolo. Questa, dunque, compare in età assai più recente di quanto si potrebbe pensare. Nel Dizionario siciliano-italiano di Giuseppe Biundi (1857), il primo dizionario siciliano che registra la forma arancinu. Si trattava di “una vivanda dolce di riso fatta alla forma della melarancia”, dolce, non salata. I passaggi dal dolce al salato, comunque, erano frequenti.
Nel Nuovo vocabolario siciliano-italiano del Traina (1868), dalla voce arancinu si rinvia a crucchè: “specie di polpettine gentili fatte o di riso o di patate o altro”, da confrontare con la ricetta 199 (Crocchette di riso composte) della Scienza in cucina, che indica una preparazione certamente salata. Negli esempi prima citati non sono mai menzionati né la carne né il pomodoro. È difficile dire quando questi due ingredienti siano entrati nella ricetta. Del pomodoro, tra l’altro, si sa che cominciò a essere coltivato nel Sud della penisola solo all’inizio dell’Ottocento. Il legame tra la pietanza siciliana e la tradizione araba non sembra più così certo. Si potrebbe pensare che si tratti di un piatto nato nella seconda metà del XIX secolo come dolce di riso, ma che sia stato trasformato quasi subito in una specialità salata.
Il nome, secondo l’ipotesi suggerita da Salvatore C. Trovato in A proposito di arancino/arancina (“Archivio Storico della Sicilia Centro Meridionale”, II, 2016) – potrebbe derivare non solo dalla forma dell’arancia, ma anche dal suo colore. In siciliano, infatti,le parole che indicano nomi di colori si formano da una base nominale più il suffisso -inu, quindi arancinu, cioè ‘di colore arancio’.
Arancino, con la “o”
Nel dialetto siciliano il frutto dell’arancio è aranciu e nell’italiano regionale diventa arancio. Al dialettale aranciu per ‘arancia’ corrispondono il diminutivo arancinu per ‘piccola arancia’, arancino nell’italiano regionale: da qui il nome maschile. La prima attestazione nella lessicografia italiana di arancino si trova nel Dizionario moderno del Panzini (edizione 1942), che registra la forma maschile, contrassegnandola come dialettale siciliana. Questa denominazione, dunque, è quella che riportano i dizionari dialettali, i dizionari italiani (basterà citare il GDLI e il GRADIT), e che è stata adottata dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali nella lista dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali italiani; è la forma che il commissario Montalbano ha portato nei libri e in televisione e di conseguenza nella competenza di tutti gli italiani.
Arancina, con la “a”
I dizionari quindi concordano sul genere di arancino. Le indicazioni del genere del nome che indica il frutto dell’arancio sono, tuttavia, oscillanti. Le due varianti arancio e arancia coesistono, con una prevalenza del femminile nell’uso scritto e una maggior diffusione del maschile nelle varietà regionali parlate di gran parte della penisola. Il femminile tuttavia è percepito come più corretto – almeno nell’impiego formale. Si ipotizza che il prestigio del codice linguistico standard abbia portato la forma femminile arancia a prevalere su quella maschile arancio nell’uso dei palermitani. Avendo adottato la forma femminile per il frutto, l’hanno di conseguenza usata nella forma alterata anche per indicare la crocchetta di riso: dunque, arancina. Si potrebbe allora concludere che chi dice arancino italianizza il modello morfologico dialettale, mentre chi dice arancina non fa altro che riproporre il modello dell’italiano standard.
Questa supposizione troverebbe conferma nell’unica attestazione di arancina che si trova nella letteratura di fine Ottocento: le “arancine di riso grosse ciascuna come un mellone” dei Viceré (1894) del catanese Federico De Roberto, che si atteneva a un modello di lingua di matrice toscana. La variante femminile, alla fine del secolo, è stata poi registrata da Corrado Avolio nel suo Dizionario dialettale siciliano di area siracusana (un manoscritto inedito della Biblioteca Comunale di Noto, compilato tra il 1895 e il 1900 circa) e più tardi da Giacomo De Gregorio nei suoi Contributi al lessico etimologico romanzo con particolare considerazione al dialetto e ai subdialetti siciliani (“Studi Glottologici Italiani”, VII, 1920, p. 398) che rappresentano l’area palermitana. Arancina è stata registrata anche dalla lessicografia italiana: dallo ZINGARELLI del 1917, che la glossa come “pasticcio di riso e carne tritata, in Sicilia”, e dal Panzini nell’edizione del 1927; dopo però non se ne ha più nessuna traccia.
Foto di Barbara Conti