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Il nuovo appuntamento della rubrica Scopri Palermo di Igor Gelarda ci porta al Castello di Maredolce, preziosa testimonianza del passato: uno dei quattro “sollazzi” dei re Normanni.

Castello di Maredolce

Ormai completamente inglobato dentro la città, inghiottito dal quartiere di Brancaccio, il Castello di Maredolce o della Favara resiste ancora a testimonianza della gloria della Palermo di un tempo. Con la Zisa, la Cuba e quello che resta dell’Uscibene era uno dei quattro “sollazzi” dei re Normanni. Strutture nate non per difendersi o combattere i nemici, ma per fare rilassare il Re e la sua corte. Dove le vere battaglie avvenivano durante la caccia e dentro i letti!

L’antico palazzo islamico

In realtà re Ruggero costruì il suo palazzo sopra una struttura islamica preesistente, sicuramente in piedi già nel 972, anno in cui visitò la Sicilia un viaggiatore iracheno, di nome Ibn-Hawqal che scrisse: “Attorno al castello vi sono ancora altre sorgenti meno conosciute, da cui si trae grande profitto. La piccola Favara e la grande Favara, poste all’angolo della montagna che sovrasta la città. E la più abbondante tra le sorgenti del paese. Tutte le sue acque sono utilizzate per l’irrigazione dei Giardini”.

Il palazzo veniva chiamato Fawara, dalla parola araba al-fawwāra, cioè sorgente. Circa 200 anni dopo, nel 1184-1185, ci fu un altro viaggiatore arabo- andaluso, Ibn Jobair, che visitò la Sicilia, questa volta però in piena dominazione normanna, che scrisse: “Non lontano dal Castello di Sa’d (cioè la cannita) ad, un miglio circa sulla via che porta alla capitale e c’è un altro Castello somigliante che si chiama il castello di Giafar dentro il quale c’è un vivaio nutrito da una grande Fonte d’acqua dolce”.

Motivo per cui Michele Amari nella sua storia dei Musulmani ipotizza che la costruzione di questo palazzo venne fatta all’emiro Giafar II (998-1019), al quale è intitolata anche la vicina strada che attraversa il ponte di Brancaccio. Tuttavia qualcosa non quadra, dato che Giafar sarebbe diventato emiro di Sicilia attorno al 998, 25 anni dopo il passaggio del viaggiatore arabo Ibn-Hawqal, il primo che ho citato, che nel 972 aveva già visto il castello in quella zona. Quindi in realtà non sappiamo quale emiro abbia iniziato la costruzione di Maredolce, verosimilmente qualche avo della famiglia della dinastia Kalbita di Giafar che forse, successivamente, lo ha ampliato e abbellito.

Castello di Maredolce

Castello di Maredolce – Foto Vincenzo Lombino

Il palazzo si ispirava ai giardini fatimiti detti agdal, un termine berbero che vuol dire “giardino chiuso”, che indicava strutture con corpi bassi circondate da una ricca vegetazione di alberi da frutto come aranci, limoni, melograni, fichi, albicocchi) e tanta tanta acqua che spesso formava un lago o un bacino irriguo, alberi da frutto, animali e pesci. Ancora oggi esistono Agdal, giardini così strutturati, in Marocco.

Che ci fosse un castello sotto quello normanno non solo ce lo dice il viaggiatore iracheno Ibn- Hawqal, ma lo attestano anche gli scavi archeologici recenti che hanno mostrato come i normanni avessero a volte rifatto, altre volte riadattato il loro palazzo costruendo sopra la parte islamica, resa visibile dagli archeologi.

Il sollazzo regio di Ruggero

Ruggero apportò profonde modifiche alla struttura, risistemando il parco che fu dotato di cinghiali e caprioli, strutturandone la grande peschiera chiamata con termine arabo “Albehira”, il grande lago che circondava il castello e che lui fece dotare di pesci di ogni sorta: “L’acqua limpida delle due sorgenti sembra liquide perle e una distesa intorno al mare. I rami dei giardini sembrano protendersi a guardare i pesci delle acque, e sorridere. Il grosso pesce nuota nelle limpide acque del parco, gli uccelli cinguettano nei suoi verzieri” scrive attorno al 1110 il poeta arabo-trapanese ‘Abd al-Rahman al-Itrabanishi, poeta ma anche segretario del Re Ruggero.

Maredolce

Foto Vincenzo Lombino

L’acqua proveniente dalle sorgenti del monte Grifone alimentava questo grande lago artificiale che poi sfociava al mare, in un felice incontro tra acque dolci e acque salate che lo fecero chiamare appunto maredolce. A descrivere ancora le bellezze del palazzo questa volta è un latino, alto dignitario della corte di Re Ruggero, Romualdo Guarna Salernitano di origine longobarda, che nel 1153 scrive: “le delizie della terra e delle acque, in un sito che dicesi Favara che è pieno di ricchezze, [Ruggero II] fece un bel lago artificiale nel quale ordinò che fossero riposti pesci di ogni natura e di varie regioni […]. E fece pure innalzare, all’interno del parco, un palazzo al quale, attraverso sotterranee condutture, giungessero acque sorgenti da fonte”. Sappiamo poi che Guglielmo I il malo, abbellì ed arricchì ancora la già splendida struttura di suo padre

La cappella palatina

Anche il castello venne profondamente modificato da Ruggero, che restava lì in inverno e durante i suoi riposi estivi. Il re normanno lo dotò di una grande corte all’aperto, di una aula regia e di un imbarcadero per navigare il lago artificiale. Ruggero fece costruire una chiesa sopra la moschea che si trovava dentro il palazzo Islamico e così dove prima cantavano i Muezzin, cominciarono a suonare le campane della Ecclesiam Sanctorum Philippi et Iacobi de Fabaria, dedicata appunto ai santi apostoli Filippo e Giacomo, ricordati spesso insieme, dalla liturgia, perché le loro reliquie furono deposte lo stesso giorno nella chiesa dei Dodici Apostoli a Roma.

Castello di Maredolce

Foto Vincenzo Lombino

Si trattava della cappella palatina del palazzo, in quanto serviva una dimora reale, che andò con il tempo completamente distrutta, tanto che Antonino Mongitore nel 1731 si recò personalmente sul posto non trovando che “molti pezzi di mattoni e tegole, indizi dell’atterrato edificio”.

La cappella è una piccola struttura formata da una navata unica rettangolare con due campate coperte con volte a crociera e da un piccolo transetto, dove è ancora visibile una piccola cupola semisferica, posta su un tamburo ottagonale, forse ricoperte da affreschi o mosaici di cui però non restano tracce. La cappella, come tutte le chiese bizantine, ha l’abside rivolto ad oriente.

I tanti proprietari del palazzo e l’occupazione dei senza casa

Il palazzo restò di proprietà della corona di Sicilia fino al 1329, quando Federico d’Aragona cedette il castello ai Cavalieri Teutonici della Magione, che ne fecero un ospedale, successivamente è diventata di proprietà della potente famiglia Bologna che la sfruttò come dimora agricola e magazzino. Nel 1778 Francesco Agraz Duca di Castelluccio fece altre modifiche, mentre nel 1939 al soprintendente Francesco Valenti si devono i primi lavori di restauro, anche se la struttura continuava a restare di proprietà dei privati.

Negli anni 70 e 80 del 20 secolo il palazzo fu occupato da alcune famiglie in “emergenza abitativa”, ben 70 famiglie, che più o meno come aveva fatto il protagonista della novella di Patron Dio di Pirandello avevano occupato una struttura abbandonata da tutti ‘’. Finalmente la Regione lo ha acquistato, siamo nel 1992, per esproprio, sgombrandolo dagli abitanti e cominciando a metterlo in sicurezza e parzialmente a restaurarlo.

Sapete quanti palermitani non hanno mai visitato questa struttura, che è aperta tutti i giorni, tranne le domeniche. Forse neanche tu che stai leggendo questo articolo. Per maggiori informazioni contattate il 3473187857.

Tutte le foto sono di Vincenzo Lombino

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