Tra le usanze che meglio caratterizzano un Paese c’è sicuramente quella della tavola. In Sicilia, diverse documentazioni e i numerosi scavi archeologici, hanno portato alla luce le preziose testimonianze di una ‘cultura del pesce’.
Mentre la carne era fin dall’Antica Roma simbolo di prestigio e fasto, il pesce fu sin da subito, e per tutto il territorio siciliano, un cibo capace di essere apprezzato in maniera molto più facile e capillare. Della sua cattura ma anche della preparazione di prodotti a base ittica, e del suo commercio, ne parlano già le prime testimonianze preistoriche ritrovate presso la Grotta dell’Uzzo, in zona di San Vito Lo Capo, dove sono stati ritrovati resti fossili di antichi pesci, risalenti al VIII millennio a.C.; importanti sono poi le pitture rupestri della Grotta del Genovese, presso Levanzo, Isole Egadi, ma soprattutto le numerose vasche volte alla lavorazione del pescato, ritrovate soprattutto lungo tutta la costa settentrionale dell’Isola. E poi documentazioni, anfore e utensili a testimonianza archeologica di quella che è da sempre stata un’antica usanza.
La cattura del pesce, e in particolare quella del tonno, descritta sia da Eschilo che Aristotele, si perpetrava in Sicilia secondo metodologie arcaiche che non prevedevano ancora, per lo meno non massicciamente, l’uso delle reti; i pesci però non venivano consumati solo freschi. Non essendo infatti ancora disponibile un sistema di conservazione dei cibi attraverso la refrigerazione, l’unico rimedio a disposizione degli Antichi, era quello di utilizzare aromi e spezie. Ecco perché molte delle vasche rinvenute per la lavorazione del pescato, furono ritrovate in prossimità delle saline.
In zona di San Vito Lo Capo, in provincia di Trapani, è stato rinvenuto, presso la nota tonnara, un impianto che comprendeva anche massi in pietra lavica, probabilmente macine per la triturazione del sale, nonché antichi ami e altre attrezzature legate alla cattura del pesce e alla creazione delle prime reti rudimentali.
Importante poi era lo stabilimento di Portopalo, in provincia di Siracusa, che fu utilizzato almeno fino al IV-V secolo a.C. Completo persino di fornace per la fabbricazione delle anfore, dove molto spesso veniva contenuto e trasportato il pesce salato o il garum, la nota salsa fatta di interiora e sangue di pesce, molto apprezzata in epoca Romana come condimento di diversi piatti, e anche di un cortile dedito, probabilmente, alla pulitura del pesce. Mentre l’impianto in località Torre Vendicari, in zona di Noto, era talmente conosciuto da essere nominato anche da Plinio nella sua opera “Storia Naturale”. Il toponimo della città di Vendicari, sembrerebbe risalire, secondo gli studiosi Fazello e Guillon, ai funzionari bizantini detti ‘Vindices’, in pratica riscossori di tributi, che erano probabilmente legati alla prima industria della salatura del pesce. Diverse testimonianze hanno infatti dimostrato come già in epoca ellenistica dovesse esistere una tassazione del sale marino, il che farebbe supporre dunque la presenza di una ben avviata lavorazione dei prodotti ittici.
Durante il periodo romano, la piscicultura iniziò ad assumere una certa rilevanza quale pratica capace di dimostrare la ricchezza e il prestigio; diverse sono infatti le peschiere, soprattutto sottomarine, rinvenute lungo i possedimenti litoranei dell’Impero. La pratica era soprattutto legata agli aristocratici, tanto che infatti furono molti i primi allevamenti ittici a costituire una parte rilevante nell’ornamento di antiche ville patrizie dell’inizio del I secolo e fine del II secolo a.C. In Sicilia, rimangono a testimonianza la Kolymbetra di Agrigento, il noto sito paesaggistico, citato anche dal Pirandello, che veniva utilizzato dagli Antichi Romani per i giochi acquatici, e un impianto individuato sull’Isola delle Femmine.
Oltre al tonno, preziose testimonianze confermano che gli antichi abitanti di Sicilia apprezzavano inoltre le murene del Peloro, il pesce spada messinese e le conchigliette di Tindari, per non parlare poi del gambero imperiale di Katane, l’antica Catania, o del granchio: simbolo della città, veniva persino inciso sulle monete.
Autore | Enrica Bartalotta