C’era una volta la putia di vinu (la bottega del vino)

Qualcosa di tipicamente siciliano, pur nella somiglianza di famiglia con le altre osterie, taverne, bettole, molto diffuse anche altrove. Si tratta della putia di vinu, o bottega di vino, un tipo di  scomparso, che ha assunto un enorme ruolo sociale nella storia della nostra terra.

Un tempo in tutta Sicilia (in gran parte dell’isola) pullulavano le putii di vinu, letteralmente botteghe di vino, ma in realtà non si trattava soltanto di semplici rivendite del prezioso nettare. La putia di vinu era “un luogo di ristoro e di incontro per operai e contadini dopo il duro lavoro della giornata” afferma lo storico Diego Lodato. “Un tempo gli avventori delle putii di vinu si riunivano prima in piazza con gli amici e andavano in queste botteghe a chiacchierare, a bere e talvolta a prendere qualche boccone. Il consumo del vino era un mezzo per stare insieme con gli amici e svagarsi”.
Tuttavia “c’erano anche quelli che andavano nella putia solamente per ubriacarsi” -continua Lodato – “e poi magari andavano al bar per prendersi il caffè e “sbriacarsi”, come dicevano loro”.
“C’era anche qualcuno del ceto medio o borghese. In genere però erano appartenenti ai partiti operai, che si riunivano ai loro sostenitori. Talvolta ci si recava alla putia di vinu persino per trattare di certi affari”. Come atti di compravendita, assunzioni, compromessi.

Diversi decenni fa, per evitare di farsi concorrenza, i titolari delle putii di vinu che stavano nella stessa strada aprivano a turno, uno dopo l’altro. “Qualche bottega era strettamente privata e temporanea, – aggiunge Lodato – di proprietà di chi produceva il vino e cercava di venderlo”.
“Molti produttori di vino” – afferma Alfonso Messina,  al momento giusto improvvisavano un luogo dove vendere il vino sfuso. Solitamente era il magazzino delle loro abitazioni ove tenevano le botti. Là organizzavano dei tavoli e vendevano il vino ad avventori abituali, che vi si precipatavano non appena apriva la putia”.
“Questo tipo di putia provvisoria” – prosegue Messina – “durava fino all’esaurimento del vino che poteva durare da una settimana a un mese, non più a lungo. Altre erano aperte sempre o per la gran parte dell’anno. A gestirle, degli agiati proprietari terrieri, detti burgisi, che trasformavano i loro magazzini in provvisori punti di ristoro, che fino a vent’anni fa sostituivano circoli e televisione.”, – sostiene Messina. “Erano dei luoghi di socializzazione prettamente maschili. Solitamente operai e contadini vi si recavano la domenica pomeriggio e nei giorni di festa. Spesso i gestori improvvisavano una “cucinata” di ceci o fave lesse, o mettevano in tavola noci e mandorle”.
Un aspetto curioso relativo alla putia di vinu era l’esistenza di un codice d’onore quasi militaresco. “Innanzitutto la persona più autorevole per età, prestigio sociale o altro sedeva a capo tavola” – aggiunge Messina. “E se c’era una lite o una discussione particolarmente accesa gi veniva riconosciuto il ruolo di moderatore (o di “paciere”, come si diceva allora). Poi chi alzava il gomito era volutamente escluso dal gruppo.”
Ed era spesso chi aveva vini di scarsa qualità che cercava di ingraziarsi ancor più i clienti offrendo pietanze povere, scelte, oltre per il loro basso costo, anche per la facilità di fattura. Il vino non era servito in bottiglia ma c’era “lu litru”, sorta di rustico calice da osteria, che veniva portato sulla mensa insieme a comuni bicchieri da tavola.

Non mancavano mai le gassose, in bottigliette piccole che erano usate per allungare il vino.
Le putii di vinu erano ospitate in magazzini o garages, presso cui venivano depositate le botti. Erano prive d’insegne; per segnalarne la presenza era uso “appendere davanti alla porta un fascio di rami di carrubo, la famosa bannera” come ci informa ancora Lodato.
Gli stessi rami di carrubo erano posti in diversi punti lungo la strada che ospitava la putia di vinu, che era in genere arredata in modo molto modesto, secondo quando emerge da un altro appunto di Diego Lodato: “L’interno di una putia era alquanto semplice: dei rustici tavoli di legno senza tovaglia e delle panche oppure talvolta delle sedie impagliate”. Al posto delle sedie potevano trovarsi dei pittoreschi sgabelli (li vanchiteddra). Se c’ era, il pavimento era in genere fatto di sobri laterizi (maduna di crita) oppure di cemento grezzo.
Il binomio tra vino e cibo trovava nella putia di vinu un luogo ideale. Infatti quando restava l’ultima botte, i vari osti della città usavano offrire una cena ai clienti più affezionati, a base di pollo o coniglio. Altre pietanze, preparate però più raramente erano trippa, zirenu (duodeno di manzo lesso, purpu a stricasali (polipo condito semplicemente con olio e limone), e, come ricorda lo storico Lodato “spezzatino di manzo e carne in brodo. Qualche bottega di vino preparava la carne in brodo e c’era gente che andava a comprare il brodo per consumarlo a casa”.
Inoltre un’altra usanza caratteristica era lu spunticieddru, lu scacciu o la scagliddra, nomi diversi che indicano lo “spuntino” che tutti gli avventori si portavano da casa per poter accompagnare il vino durante il loro soggiorno nella putia. La scagliddra era costituita da un frutto, come un’arancia o una pera, un carciofo lesso, una sardina salata, un pezzo di formaggio, e altri cibi che stavano bene con il vino.

“Quando il vino era già fermentato e si poteva bere, si metteva la bannera”, cioè quei ramoscelli di carrubo che, come abbiamo detto, sostituivano le attuali insegne. “Gli avventori” si portavano qualcosa da casa, e insieme mangiavano e bevevano il vino. C’era chi portava olive nere, ceci abbrustoliti, pane”.
Nelle putie si improvvisavano spesso concerti al suono di chitarre e mandolini”.
Ma, oltre alla musica, anche i giochi erano una componente essenziale della vita nella putìa. Tra i più diffusi, quelli con le carte: briscola, ramino, scala quaranta, ma anche lu tueccu (cioè “il matto”) una sorta di rappresentazione teatrale estemporanea, che poteva svolgersi solo nella putia di vinu.
“Lu tueccu era un particolare gioco delle parti, basato su un cerimoniale di tipo cavalleresco. Il gioco consisteva nel creare una specie di tribunale presieduto da un Capo aiutato da un sottocapo; il Capo doveva decidere se i giocatori potevano continuare a bere oppure no. chi restava escluso dal gioco era costretto a non bere”.
La putia di vinu non era solo una mescita di vini, dal momento che un tempo fungeva da luogo di socializzazione, da trattoria, da bar, etc. dando così vita a tutta una serie di usi, costumi e tradizioni varie, accomunate dalla grande passione  per il vino, che ovviamente portava con sè non pochi effetti collaterali.
“Pur con modalità e forme diverse,” – conclude Alfonso Messina – a frequentare bettole, osterie e putii di vinu erano davvero in tanti. Il fenomeno dell’alcoolismo era comune a tutto il Meridione, con punte dell’80%. Bere era un modo per annegare nell’alcool paure e dispiaceri. In un certo senso, il disagio sociale era drogato dal vino”.
Abbiamo tuttavia volutamente trascurato gli aspetti negativi, che pure c’erano, preferendo tracciare una rievocazione bonaria e venata di nostalgia per la putia di vinu e il suo mondo,  tutto scomparso, che incideva sulle tradizioni e la vita di un’intera comunità.

Domenico T.

Foto da http://castrumracalmuto.blogspot.it/ – www.corrieredelsud.it –

Staff Siciliafan