L'obesità nei bambini mette a rischio il fegato: con una dieta a base di cibo spazzatura e di zuccheri è infatti in agguato l'insorgenza della sindrome metabolica, con le relative implicazioni a carico di quest'organo, che non è più in grado di smaltire l'eccesso di grasso. È il risultato di una ricerca condotta dalla Fondazione italiana fegato (Fif) nei laboratori dell'"Area Science Park" di Trieste, pubblicata sulla rivista "Plos One", che analizza la cattiva alimentazione e le conseguenze patologiche dell'obesità infantile.
Lo studio segue ricerche su roditori condotte dalla Fondazione: è stato in particolare sviluppato un modello che riproduce l'insorgenza della sindrome metabolica in età infantile con le sue implicazioni a carico del fegato, le cui cellule a un certo punto non sono più in grado di smaltire l'eccesso di grasso. Il risultato è il manifestarsi della steatosi epatica non alcolica (Nafld) e della steatoepatite non alcolica (Nash).
I ricercatori della Fif hanno riscontrato che nell'età pediatrica la progressione della malattia è più veloce, con prognosi generalmente più grave rispetto agli adulti. È inoltre emersa una differenza di genere nella velocità di sviluppo della malattia, che vede nei maschi di topo una progressione più rapida nella fase iniziale, anche se il danno finale risulta equivalente tra maschi e femmine.
Più in dettaglio, lo studio è consistito nell'alimentare sei topi con una dieta ad alta percentuale di grassi e aggiunta di fruttosio nell'acqua, cominciata subito dopo lo svezzamento (tre anni umani) e proseguita per 16 settimane, fino all'età adulta (30 anni umani). Il 100% dei soggetti di entrambi i sessi ha sviluppato la steatosi epatica in quattro settimane e un certo grado di fibrosi ("cicatrici") in otto settimane, con l'86% dei maschi e il 15% delle femmine con fibrosi di stadio 2 (il "punto di non ritorno") in sedici settimane.
"Considerando che l'obesità infantile è in esplosione anche da noi e che il danno al fegato da sindrome metabolica diventerà nei prossimi anni la principale causa di trapianto, il modello sarà un'ottima piattaforma per studiare i meccanismi che portano al danno, capire le differenze maschio/femmina e testare farmaci e nuovi approcci diagnostici", commenta il professor Claudio Tiribelli, direttore della Fondazione Italiana Fegato e tra gli autori del paper.