«Ibla è città che recita con due luci… a fior di labbra, in sordina, come conviene a una terra che indossa il suo barocco col ritegno d’una dama antica» (Gesualdo Bufalino, Cere perse, Sellerio, 1985). Così descriveva Bufalino, nella sua raccolta "Cere perse", la terra iblea che di dame antiche ne ha viste passare moltissime durante la sua lunga storia: Donne forti, donne sensibili, donne autorevoli, donne con l'idea di cambiare il mondo, tutte accomunate dal fatto di aver vissuto in un lembo di terra magico che mescola la storia della Sicilia all'esperienza ancestrale del vissuto umano. Se è vero che dietro ad ogni grande uomo si cela quasi sempre una grande donna è altrettanto vero che numerosi sono i nomi di donne illustri all'interno del pantheon siciliano provenienti dal territorio ragusano che hanno contribuito con le loro vicende a dare lustro e fama all'isola del sole. La venerazione per il femminile ha nei Monti Iblei radici arcaiche, infatti ancora prima della colonizzazione greca il culto della dea sicana Hybla era diffuso tra i Siculi e le diverse antiche città che inglobano nel proprio nome anche quello della dea (vedi Megara Hyblaea, Hybla Heraia, Hybla Geleate) sono testimoni della particolare devozione che questi centri avevano per i culti potniaci, ovvero quelli incentrati sulla terra e in particolare sul culto della Gran Madre. Hybla era dunque la potente dea creatrice di tutte le cose, protettrice della fertilità e dei campi, talvolta associata anche ad Afrodite nonchè alla bellezza e il suo centro principale era sito a Paternò dove sorgeva un tempio dedicatole (così come attesta Pausania). Altre autorevoli fonti ci riportano l'importanza rivestita sia da questa figura che dai siti che presero il suo nome, citiamo ad esempio Erodoto, Plutarco, Virgilio e Marziale.
Ma se nell’antichità diverse sono le testimonianze che sottolineano l’importanza rivestita dalla figura femminile, andando avanti nel tempo si perdono le tracce di tali notizie e la storia si mescola alla leggenda. Occorre infatti aspettare il 1091, anno in cui Goffredo figlio di Ruggero I di Sicilia venne investito del titolo di Conte di Ragusa (e tutto il territorio innalzato a signoria) per avere notizie di una dama antica in cammino per le terre iblee. Goffredo infatti ebbe in moglie Donna Regalia (o Rogasia, detta la “nobilissima”), probabilmente di stirpe longobarda che divenne per matrimonio la prima contessa di Ragusa e i cui figli (Bartolomeo e Silvestro e poi i nipoti) governarono la contea fino al 1193. Fu invece un matrimonio d’interesse a dare vita ad una delle entità feudali più importanti dell’isola: La Contea di Modica. Qualche anno prima del 1296 infatti il Dominus Ragusiae Manfredi I Chiaramente, sposò Isabella Mosca, figlia del Conte di Modica Manfredi, così facendo le due contee si unirono in un unico grande e potente territorio (che comprendeva Scicli, Pozzallo, Spaccaforno, Gulfi, Caccamo, Ragusa, Acate, Comiso, Giarratana, Monterosso A. Santa Croce C. e Vittoria) che godrà di autonomia propria fino alla soppressione avvenuta nel 1816 quando la contea venne incorporata definitivamente nel Regno delle Due Sicilie. La rappresentante più influente della dinastia dei Chiaramonte fu senza ombra di dubbio Costanza (1377-1423) figlia di Manfredi III Conte di Modica. Nata probabilmente a Modica, chiesta in sposa da Margherita di Durazzo reggente del trono di Napoli per il figlio Ladislao I d’Angiò, Costanza divenne regina di Napoli per tre anni a partire dal 1389 (o 1390), ma ben presto, a causa dei cambiamenti politici all’interno della corte angioina, la sua fortuna declinò e la regina fu vittima di un increscioso fatto che la vide ripudiata dal marito e privata del proprio anello nuziale durante la santa messa officiata dal cardinale di Capua, obbligata dal re (nonché ex marito) a sposare nel 1395 Andrea di Capua conte d’Altavilla (1374-1425), Costanza non esitò ad urlare il suo sdegno per il nuovo sposo nella pubblica piazza dicendo: “Puoi vantarti d’avere per concubina la moglie del tuo re!”. Con la morte di Costanza e la condanna alla pena capitale di Andrea nel 1392 (ultimo esponente del casato) si concluse l’epopea dei Chiaramente e la contea di Modica passò nelle mani dell’Ammiraglio Bernart Cabrera.
La regina Costanza e il re Ladislao I Angiò
Della dinastia Cabrera ricordiamo come figura di spicco l’ultima discendente di Bernart, Anna I (n.1459) contessa di Modica che fece imparentare nel 1481 il suo casato con quello del re di Spagna sposando Federico Enriquez (primo cugino del re Ferdinando il Cattolico). La contessa per non sfigurare di fronte ai reali di Spagna portò una dote di 120.000 fiorini d’oro (pari a 25/30 milioni di euro nel 2012) dando così vita al ramo Enriquez- Cabrera. I due coniugi furono sepolti all’interno della chiesa di S.Francesco a Medina di Rioseco in Spagna e il sepolcro è un omaggio ad Anna, infatti Federico volle farsi seppellire in basso sovrastato dalla statua della moglie e della cognata Isabella e fece incidere sulla lastra funebre le seguenti parole: “Esse stanno dove meritano e io dove merito”, segno di umiltà e di rispetto nei confronti della moglie, destinata a dominare dall’alto l’operato e il cenotafio del marito.
Castello dei Conti di Modica – Qui Anna I e Federico Enriquez vissero per tre anni subito dopo il loro matrimonio e fino alla morte della madre di Anna, la Contessa Giovanna Ximenes de Foix avvenuta nel 1484, nel 1486 i coniugi si trasferirono definitivamente in Spagna dove Federico diventò consigliere del re e Almirante di Castiglia.
Tra le donne più note che portarono il cognome Enriquez-Cabrera si ricorda sicuramente la contessa di Modica (e Duchessa di Medina) Vittoria Colonna (1558-1633) che si trovò a fronteggiare la grave crisi economica del ‘600 che colpì senza alcuna pietà anche la contea (già aggravata dalla cattiva politica del marito Ludovico III Enriquez). La contessa per superare i numerosi problemi dovette chiedere al re di Spagna un privilegio regio per poter fondare un nuovo insediamento con lo scopo di risanare i debiti patrimoniali, così il 24 Aprile 1607 sorse la nuova città di Vittoria (chiamata come la sua fondatrice) che dal 1990 conserva le spoglie della stessa contessa nella chiesa madre di S.Giovanni. Dopo la crisi seicentesca quello di Vittoria Colonna risulta essere uno dei periodi di maggior splendore della Contea di Modica, la potente signora infatti distribuì le terre incolte frazionando il territorio che governava e assegnò pezzi di terra da coltivare ai briganti del luogo con l’opportunità di un riscatto sociale attuando così una grande e lungimirante rivoluzione sociale.
La terra iblea però non è solo politica e giochi di potere ma anche e soprattutto arte e cultura. Sul finire del Settecento degna di nota è la nobildonna Felicia Schininà che fece edificare a Ragusa nel 1796 (proprio accanto alla cattedrale, finita di costruire nel 1760) uno tra i templi sacri più belli e imponenti del centro storico della città superiore: La Chiesa del Collegio di Maria SS. Addolorata, a pianta centrica e in stile neoclassico con reminescenze barocche, l’edifico accoglie al suo interno pregevoli tele del Pollaci (S.Giulia Falconieri e la presentazione al tempio di Gesù Bambino) ed occupa con la sua maestosa facciata, caratterizzata da coppie di colonne corinzie, un lato della prospiciente Piazza S.Giovanni. Accanto all’edificio si sviluppa un palazzo barocco sede del convento voluto dalla nobildonna.
Un’altra illustre donna e parente della sopracitata Felicia fu Maria Schininà Arezzo (Ragusa 1844-1910) in religione Suor Maria del Sacro Cuore di Gesù, di famiglia aristocratica destò molto scandalo quando a seguito della morte del padre abbandonò la vita mondana per dedicarsi alla preghiera e alla religione. Rifiutatasi di vestire i lussuosi abiti che era solita portare decise di abbigliarsi come le popolane e andare a trovare i poveri, i carcerati e gli ammalati nei tuguri della città per servirli ed assisterli. Così scriveva la suora in una lettera: “Mentre il mondo mi credeva felice e qualcuno chissà, forse anche mi invidiava, il mio cuore era immerso in una profonda amarezza. Tutto mi dava noia: il lusso, la musica, la società; e molto più mi riuscivano intollerabili i balli e le serate di una lunghezza senza fine”. Alla morte di Maria il popolo si levò in un'unica voce gridando: “E’ morta una santa!”, venne dichiarata venerabile nel 1989 e beata da Papa Giovanni Paolo II nel 1990. Tra gli incarichi ricoperti da Maria oltre a quello di fondatrice delle Suore del Sacro Cuore di Gesù vi è la nomina nel 1871 ad ispettrice scolastica, incarico condiviso con un’altra figura sui generis del panorama ibleo, la poetessa netina Mariannina Coffa Caruso (Noto 1841- 1878), figura dolente e sospirosa, Mariannina incarna il “mal de vivre” di fine Ottocento, la sua storia di malmaritata si intreccia con la sensibilità poetica simbolista tipica dei poeti maledetti che trovano nella scrittura l’unica panacea in grado di alleviare i propri malesseri. Insofferente alle regole sociali che impedivano ad una donna di poter scrivere liberamente, la Coffa è antesignana del femminismo e della libertà d’espressione, così scriveva la sventurata in una lettera indirizzata al suo amore impossibile Ascenso Mauceri (1830-1893): “Ciò… che per la donna è dovere, vorrei fosse dovere per l’uomo. Debbono avere entrambi il loro pudore, senza fare la menoma distinzione al sesso, alle abitudini, alla educazione… io non faccio alcuna distinzione fra uomo e donna, appunto perché non faccio distinzione tra spirito e spirito…”. Fuggita dalla casa ragusana del marito dove il suocero credeva che “lo scrivere rende le donne disoneste” e abbandonata dalla famiglia natale, impaurita che la sua condotta scellerata della giovane avrebbe avuto negative ripercussione anche su di loro, Mariannina morirà in solitudine a 36 anni portandosi nel cuore soltanto odio.
Si snodano invece a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento le storie di altre due donne iblee accomunate da un grande cuore, dalla magnanimità e dall’altruismo, la prima è la Principessa di Castellacci Maria Paternò Arezzo (Ragusa Ibla 1869- Messina 1908) nobile ragusana che morì a soli 39 anni nel disastroso terremoto di Messina non lasciando alcun erede, il corpo venne recuperato solo sei mesi dopo la catastrofe e durante gli scavi fu rinvenuta una lettera datata 8 Febbraio 1900 in cui la Paternò Arezzo scrisse le sue ultime volontà. Era intenzione della nobildonna infatti avviare la costruzione di un ospedale a Ragusa Inferiore (Ibla) per la cura degli ammalati e degli indigenti. Così la principessa descriveva il suo progetto postumo: “Avendo io sempre desiderato di fare qualcosa in pro dei poveri sventurati diseredati dalla fortuna, voglio che avvenuta la mia morte cominci a fabbricare un ospedaletto di n.30 infermi, voglio che detto ospedale porti il mio nome… ciò non per vanagloria ma per non essere tacciata d’ingrata verso il mio paese”, la volontà della nobildonna sarà esaudita e l’ospedale “Maria Paternò Arezzo” verrà inaugurato il 28 Gennaio 1923, 15 anni dopo il terremoto che uccise la donna. L’altro altissimo esempio di carità cristiana è rappresentato da una suora già in odore di santità mentre era in vita, Maria Crocifissa Curcio (al secolo Rosa Curcio, Ispica 1877- Santa Marinella 1957), Suor Maria fu la fondatrice della Congregazione delle Carmelitane Missionarie di Santa Teresa del Bambin Gesù (ordine del Carmelo). Avida di sapere la piccola Rosa cominciò fin da giovane ad interessarsi alla cultura e alla religione, studiando in particolare la vita di S.Teresa di Gesù che le fece conoscere ed amare il Carmelo, aprendola allo “studio delle cose celesti”, da grande la sua missione principale diventò quella di “portare anime a Dio” esortando le suore ad “amare santamente i tesori che la Bontà divina vi affida, le anime giovani e le speranze dell’avvenire”, segnata per tutta la vita da una salute precaria e dalla malattia del diabete Suor Maria si spegnerà serenamente nel 1957 diventando per tutti la “martire d’amore”, nel 2005 Papa Benedetto XVI la proclamò beata per la chiesa cattolica, il suo giorno festivo si celebra il 4 Luglio.
Il ‘900 è invece il secolo di un’altra combattiva e instancabile signora iblea, la donna di lettere Maria Occhipinti (Ragusa 1921- Roma 1996) rivoluzionaria, femminista e scrittrice, Maria incarnò il pensiero di molte madri e mogli che, afflitte dalle perdite dei figli e dei mariti uccisi durante la seconda guerra mondiale, si rifiutarono di mandare i propri cari a morire sul fronte istituendo il movimento antimilitarista “Non si parte!” di Ragusa, Maria in particolare a seguito dei rastrellamenti del ‘45 non esitò a stendersi in mezzo alla strada incinta di cinque mesi per bloccare il mezzo su cui venivano trasportati alcuni suoi concittadini, tale gesto provocò subito un’insurrezione popolare che durò per 4 giorni. Maria venne arrestata e condannata al confino, scontata la pena cominciò a viaggiare per tutto il mondo (Milano, Svizzera, Francia, Marocco, Canada, Stati Uniti) per stabilirsi definitivamente a Roma e morirvi. Con la sua autobiografia “Una donna di Ragusa” vinse nel 1976 il prestigioso Premio Brancati.
Queste sono storie di donne dall’imperturbabile voglia di fare, donne le cui vite hanno segnato il destino della nostra terra, testimoni silenziose di un tempo passato che è sempre vivo, donne che a distanza di secoli hanno ancora qualcosa da raccontarci, portavoci instancabili delle nostre tradizioni e quintessenza perenne della cultura iblea e siciliana.
In” Gli Hyblei ieri-oggi-domani”