Se vi è capitato di sentire il modo di dire “Si calau na cona“, allora sapete già cosa è una “cona“. Per quelli che non lo sanno ancora, la definizione è presto detta: si tratta dell’edicola votiva. E dietro quel modo di dire c’è un’usanza che, un tempo, era molto amata. Le città siciliane sono ricche di questi altarini della tradizione cristiana. Se ne trovano di ogni grandezza e tipologia: alcuni molti decorati, altri appena accennati, molti abbandonati, tutti legati alla devozione. In passato, soprattutto a Catania, era diffusa la tradizione di addobbare gli altarini con, agrumi, dolci o anche ortaggi nel periodo natalizio. Una tradizione similare si ritrova anche in altre località, con modalità leggermente diverse.
Terminate le festività, la frutta si toglieva e si mangiava, ma poteva anche capitare che qualcuno, approfittando della notte e dell’altare incustodito, andasse a cibarsi di quanto vi era posto sopra. La Cunzata da Cona è proprio questo. Un’usanza molto importante, raccontata anche da Giovanni Verga ne I Malavoglia: «Come s’avvicinava la novena di Natale, i Malavoglia non facevano altro che andare e venire dal cortile di mastro Turi Zuppiddu. Intanto il paese intero si metteva in festa; in ogni casa si ornavano di frasche e d’arance le immagini dei santi, e i fanciulli si affollavano dietro la cornamusa che andava a suonare davanti alle cappellette colla luminaria, accanto agli usci». Ancora oggi, da qualche parte della Sicilia, si adornano gli altarini con mandarini, arance e cedri: è un modo per ricordare i tempi in cui la consuetudine era più diffusa. Un tempo in cui si aveva meno e si condivideva di più.
Foto: Delphine Trovato