“Cursari di Stidde”. Alcuni di noi conservano ancora nel profondo del cuore i ricordi di un’infanzia profanata dalla tragedia della guerra. “Noi picciriddi” raccontava il nonno, “saltellavamo tra le macerie accumulate nei vicoli di Palermo calciando un pallone di stracci e giocando con la strombola, anche se, nelle giornate di vento lasciavamo ogni cosa, per correre nelle strade polverose ad inseguire le nostre “stidde (aquiloni)“.
Inconsapevoli spettatori dell’orrore che ci circondava, reclamavamo il nostro diritto alla gioia ed al gioco, e quelle “stidde” che volteggiavano nel cielo, brillavano fulgide tra gli edifici squarciati dalle bombe, facendoci sognare mondi lontani.
Le “stidde” allestite con due canne legate a crociera, sostenevano un tessuto leggero dalla forma quadrata, e nella coda, come i grandi uccelli, dei lunghi e colorati pendagli. Ricordo ancora l’emozione di vederla salire ed ondeggiare nel blu del cielo, tenuta solo da uno spago mal giuntato, avvolto in un rocchetto di legno stretto nelle mie mani, e sognavo di volare.
Talvolta ragazzi di un altro quartiere venivano a sfidarci proponendo una gara all’ultima “stidda”. Un inseguimento tra aquiloni che guidati come navi corsare all’assalto, utilizzavano le tecniche di un vero e proprio combattimento.“Mio cugino Totò era bravo a proteggere la filiera dei suoi amici dagli attacchi degli altri cacciatori”, diceva il nonno, e con la sua aquila palermitana (così la chiamava!), allestita da combattimento, difendeva il filo principale dalle incursioni avversarie.
La “stidda” di Totò era rossa e senza coda ed aveva incollate nello spago polvere e minuscole schegge di vetro, furbo espediente per tranciare meglio i fili degli avversari. Durante il combattimento gli aquiloni compivano delle acrobazie, a volte si allineavano a filiera, poi si allontanavano aspettando il momento giusto per sferrare l’attacco decisivo e tranciare il filo dell’antagonista. L’aquilone colpito, come una cometa, cadeva lentamente planando al suolo, diventando il prezioso bottino del suo cacciatore.
Onore e gloria erano riservati solo al vincitore, cioè a chi ne aveva abbattuti di più. “Io non ne ho colpito mai nessuno” raccontava il nonno, “ma quando qualche ragazzino mi sfidava, io gonfiandomi il petto gli dicevo, ora chiamo mio cugino Totò e ti faccio vedere”.
I cacciatori di aquiloni siciliani, eredi e fratelli dei più conosciuti e famosi del medioriente, combattevano già in epoche passate, come riportato da Giuseppe Pitrè nel suo libro sulle tradizioni popolari siciliane, in cui li definisce “i cursari di stidde” (corsari di stelle).
Ancora oggi nel prato del Foro Italico di Palermo, nelle domeniche di brezza, è possibile imbattersi in un trionfo di colori che volteggiano nel cielo. Nuove “stidde” governate da nuovi bambini, in un’era in cui si possiede di più e ci si accontenta di meno, era in cui purtroppo, anche gli aquiloni non hanno più il colore dei nostri sogni.