Dante e la Sicilia: il siciliano e il canto del Paradiso.
- Il 25 marzo è il Dantedì, cioè una giornata dedicata al Sommo poeta.
- Dante aveva un alto concetto del Siciliano, una lingua a tutti gli effetti.
- Secondo il poeta la Scuola Siciliana Federiciana fu alle origini della lingua italiana.
C’è un filo rosso che collega Dante Alighieri alla Sicilia. A ricordarcelo è stato l’assessore regionale dei Beni culturali e dell’Identità siciliana, Alberto Samonà, in occasione del Dantedì. Oggi, 25 marzo, si celebra infatti una giornata dedicata al Sommo Poeta. «In questo 25 marzo ricordiamo il genio profetico e contemporaneo di Dante Alighieri, l’Omero del Medioevo, come lo definì Abel-François Villemain, storico, letterato e politico francese del XIX secolo», ha detto Samonà, che ha aggiunto: «Nella giornata del Dantedì, dedicata a Dante, non si può, inoltre, non ricordare il suo amore per la Sicilia e l’alto concetto riguardo il Siciliano, non un semplice dialetto».
«Il Sommo poeta, d’altronde, considerava la “scuola siciliana” Federiciana alle origini della nostra lingua e letteratura e il suo promotore, Federico II di Svevia, nonostante la collocazione all’Inferno perché “eretico epicureo”, un grande imperatore in quanto il suo regno era espressione di civiltà, spirito etico e magnanimità», ha continuato Samonà. Ed ecco come il poeta ha parlato della Sicilia.
L’amore di Dante per la nostra terra e il suo vulcano lo ritroviamo nell’VIII canto del Paradiso, con una descrizione molto precisa: «Pur non essendoci testimonianze storiche su una sua presenza in Sicilia – ha spiegato Alberto Samonà – non si può non rimanere colpiti dai suoi versi che, veicolati da Carlo Martello, fanno fare, anche a chi non c’è mai stato, un viaggio immaginifico in questo avamposto del Mediterraneo, elogio continuum di bellezza così amato dagli Dei, in cui abbiamo la fortuna di abitare: “E la bella Trinacria, che caliga | tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo | che riceve da Euro maggior briga, | non per Tifeo ma per nascente solfo, | attesi avrebbe li suoi regi ancora, | nati per me di Carlo e di Ridolfo, | se mala segnoria, che sempre accora | li popoli suggetti, non avesse | mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”».