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Dichiarata clinicamente morta, tiene in vita il suo bambino attaccata alle macchine

È morta la donna che al San Raffaele tiene in vita il suo bambino. Il suo encefalogramma è piatto ma a suo figlio serve ancora l’utero della mamma prima di poter sopravvivere fuori, nel mondo.

Se c’è un mistero scioccante e al tempo stesso meraviglioso, è sicuramente quello della vita ed è sicuramente quello della morte. È di gennaio la notizia che ha diviso l’America: Marlise Munoz, incinta di 14 settimane, era arrivata all’ospedale John Peter Smith di Fort Worth, in Texas, in stato di coma. Ma la famiglia non ha voluto tenerla in vita, appellandosi alla legge che impedisce allo staff medico di staccare la spina. La donna sopravvisse fino alla 22esima settimana di gravidanza, grazie (o per colpa) del personale medico. In Texas, dal 1989, è infatti obbligatorio prestare ad una paziente in coma, se incinta, tutte le dovute cure, anche contro il parere della famiglia. Ma per Marlise non c’è stato nulla da fare: il 26 novembre del 2013, la vicenda è arrivata in tribunale, dove il giudice ha ordinato all’ospedale che si staccasse la spina.

Una giovane donna di 36 anni arriva all’ospedale “San Raffaele” di Milano, già stroncata da un’emorragia cerebrale. Ma la donna è incinta.
È l’ottobre di quest’anno. Subito, l’équipe di neonatologi, rianimatori, ginecologi si mette al lavoro per cercare di tenere in vita, artificialmente, il corpo, necessario alla piccola vita per maturare e sopravvivere.
È una sonda inserita nell’intestino quella che tiene in vita il feto della donna deceduta, giunto in ospedale alla ventitreesima settimana, ora ventiquattresima. È lo strumento che gli permette di essere alimentato, mentre è il respiratore artificiale a cui è attaccata la sua mamma, a far respirare il bambino, che però potrebbe smettere di vivere, se solo il corpo della donna cedesse. Perché il nostro corpo, e non di meno la nostra mente, è per noi ancora un mistero, che rimane sconosciuto anche alla medicina.

Era il 1993 quando Trisha Marshall venne dichiarata clinicamente morta, incinta di un feto giunto solo alla 17esima settimana: una sfida oltre ogni limite, visto che è solo alla 24esima che il nostro corpo inizia a sviluppare la corteccia cerebrale, ovvero il luogo in cui risiede il pensiero, la memoria, il linguaggio, e dunque le cellule neuronali. Arrivò all’ospedale Highland General di Oakland con una pallottola in piena testa, Trisha; rimase attaccata al respiratore per ben 105 giorni. Qualche anno prima, la stessa cosa accadde in Vermont, con un feto giunto alla 16esima settimana.
Il bambino di Trisha nacque sano, un po’ prematuro, con qualche difficoltà respiratoria, ma niente che non si potesse riprendere; ci auguriamo che lo stesso possa capitare alla famiglia di Milano.

Autore | Enrica Bartalotta

 

Staff Siciliafan