Emanuele Basile, chi era il Capitano dei Carabinieri ucciso da Cosa Nostra in Sicilia. Biografia e carriera professionale: dove è nato, quanti anni aveva quando è stato ucciso, l’incarico di comandante della Compagnia di Monreale. L’omicidio e le indagini.
Emanuele Basile nasce a Taranto il 2 luglio del 1949, è il terzo di cinque figli. Legato alla sua famiglia e con un grande cuore, quando è ancora molto giovane sceglie di frequentare l’Accademia Militare di Modena. Terminati gli anni di formazione e dopo aver superato il test d’ammissione, si iscrive alla Facoltà di Medicina.
Ben presto abbandona gli studi universitari, per intraprendere la carriera nell’Arma dei Carabinieri. Nel 1972 viene promosso Tenente e comanda la compagnia di Sestri Levante (Genova). Si distingue subito per la dedizione al servizio e lavora a rischiose operazioni di servizio. Poco dopo diventa Capitano e viene assegnato al nucleo investigativo di Palermo.
È il 1997 quando diventa Comandante della Compagnia di Monreale: si tratta di un punto di importanza strategica per il controllo e la lotta alla mafia. Basile è consapevole dei pericoli cui si espone, ma non si spaventa. Continua a impegnarsi con dedizione nelle indagini sulla costa mafiosa di Altofonte, la stessa sulla quale indaga il Capo della mobile di Palermo, Boris Giuliano.
In seguito all’omicidio di Giuliano, Emanuele Basile ha l’incarico di seguire le indagini. Sono decisive le sue intuizioni, non solo su questo omicidio ma, soprattutto, sul clan dei Corleonesi, in ascesa proprio in quegli anni, e sui grossi traffici di stupefacenti gestiti dalla famiglia di Altofonte.
Basile arresta, nel febbraio del 1980, i membri del mandamento di San Giuseppe Jato, Antonio Salamone e Bernando Brusca. Denuncia anche gli altri sodali ,tra cui Leoluca Bagarella, Antonino Gioè, Antonino Marchese e Francesco Di Carlo. Il Capitano, analizzando l’attività delle cosche, formula alcune ipotesi sul fatto che le famiglie facessero capo a Salvatore Riina dei Corleonesi.
Come Boris Giuliano, Emanuele Basile è uno dei primi a capire il peso dell’intromissione del clan corleonese nel traffico di droga e stupefacenti. Queste dinamiche sono spiegato nel rapporto che Basile redige il 16 aprile del 1980: sarà il suo ultimo. Quello stesso giorno consegna il rapporto e i faldoni con tutta la documentazione al giudice Paolo Borsellino.
Emanuele Basile muore la sera del 4 maggio del 1980, all’età di 30 anni. Sta rientrando in Caserma, dopo aver assistito ai festeggiamenti per la festa patronale del Santissimo Crocifisso di Monreale, ma viene colpito alle spalle, in mezzo alla folla. A crivellarlo di colpi sono tre uomini di Cosa Nostra. Basile ha in mano la figlia Barbara, che ha solo 4 anni: fa da scudo alla piccola per proteggerla dai proiettili.
Accanto a loro c’è la moglie Silvana, che invano cerca di proteggere il marito. Un colpo di pistola finisce su un’agenda con la copertina in argento, quindi la vita della donna è salva. A nulla serve la corsa in ospedale: Emanuele Basile muore durante una delicata operazione chirurgica.
Dopo il delitto vengono arrestati tre uomini: sono Armando Bonanno poi sparito con la “lupara bianca”, Vincenzo Puccio, ucciso in carcere a colpi di bistecchiera in ghisa e Giuseppe Madonia, figlio del boss di San Lorenzo. La successiva vicenda giudiziaria è lunga e frastagliata.
Nonostante ci fosse la testimonianza della moglie Silvana, i tre vengono scarcerati e inviati al soggiorno obbligato in Sardegna. La Corte d’Appello ribalta l’esito della sentenza di primo grado, condannandoli all’ergastolo. Il processo, però, viene annullato in Cassazione per dei vizi di forma. La Corte d’Appello di Palermo condanna nuovamente i tre all’ergastolo, ma la Corte di Cassazione annulla il processo per difetto di motivazione.
Per la condanna definitiva bisogna arrivare al settimo processo. Arriva la condanna per esecutori e mandanti: Totò Riina, Michele Greco e Francesco Madonia. Inoltre, Giovanni Brusca ha ammesso di aver collaborato nella progettazione dell’omicidio.
Cosimo Basile, fratello di Emanuele, lo ricorda così: “Mio fratello Emanuele sapeva che la mafia l’avrebbe fatto fuori. E io mi chiedo sempre: come fa un giovane Capitano dei Carabinieri, di 30 anni, sapendo che deve morire, a continuare a operare? La risposta è una sola: lui ha sempre creduto nell’Arma, ha sempre creduto nella legge e nella giustizia! E con coraggio, fino all’ultimo, ha onorato il giuramento prestato all’Arma”.