Spiegare cosa voglia dire essere siciliani non è facile. Ognuno vive l’appartenenza ai luoghi in modo diverso, ma c’è uno scritto del fotografo Ferdinando Scianna che racconta benissimo quel sentimento. Oggi abbiamo deciso di farvelo conoscere.
Essere siciliano – di Ferdinando Scianna
Essere siciliani è una condanna e un privilegio. È un destino. Io mi sento terribilmente siciliano, ma anche italiano. Basta che io sia in Francia, per scoprire di essere siciliano e italiano contemporaneamente. A Milano, a chi pretende di considerarmi diverso perché sono siciliano, rispondo che mi sento non meno milanese di Stendhal, che questa sua patria spirituale volle addirittura fosse scritta sulla sua tomba.
Non so che cosa significhi esattamente essere europei, se non per il fatto che quando sono in India so di essere europeo perché paradossalmente in oriente, e soprattutto in Giappone, ho scoperto che l’enorme distanza culturale che divide un siciliano da un danese, per dire, diventa vicinanza se la si paragona a quella che mi divide da un giapponese. Quindi ecco che le nostre appartenenze si allargano.
L’essere siciliano è una vicenda che riguarda il caso e la storia. Ci sono situazioni storiche in cui da certi posti, per fuggire la miseria, o quando si vogliono fare certe cose, purtroppo si è costretti ad andare via. Ho sentito un’intervista a un direttore di orchestra siciliano, credo Mannino. Da ragazzino suonava il pianoforte, era una sorta di enfant prodige.
Raccontava che una volta, a 14 anni, aveva fatto un concerto e che fra gli ascoltatori c’era Luigi Pirandello. Alla fine del concerto Pirandello andò a complimentarsi con lui e gli disse “Naturalmente anche tu andrai via dalla Sicilia. Cerca di conservarne il profumo”. In quel “naturalmente” c’era la sanzione di un destino. Essere siciliani e andare via dalla Sicilia è stato per secoli quasi un sinonimo.
Nell’andarsene si vive l’esperienza dolorosa dello sradicamento, della nostalgia ingannatrice e la scoperta del fatto che dopo un po’ non puoi tornare più. Perché quando torni non sei più a casa tua, Itaca è scomparsa, sei in un altrove che è quello della tua memoria devastata. Quando ho fatto a Milano la mia prima mostra antologica, nel 1978, l’ho intitolata “Sicilia e dintorni” e c’erano anche fotografie del Giappone. Atteggiamento allo stesso tempo ironico e arrogante.
Arrogante perché tutto il mondo è, per un siciliano, dintorni della Sicilia, ed ironico perché dovunque tu vada, ti porti dietro il siciliano che sei, e continui a guardare il mondo con lo sguardo che hai costruito negli anni determinanti dell’infanzia.
Come fai a guardare il mondo senza tenere conto che appena hai aperto gli occhi intorno a te hanno chiuso le finestre perché c’era troppo sole? Le nostre case sono piene di persiane, di luce che filtra, di finestre a bocca di lupo. In Olanda fanno case di vetro perché di luce ce n’è talmente poca. E già questo ti da un’idea diversa della luce e quindi una maniera diversa di guardare le cose.
Per me il nord ha una luce esotica, mentre dal nord vengono in Grecia, in Sicilia a cercare l’apollineità, il classico, il solare. I fotografi siciliani amano la Sicilia nera. Io, per esempio, dico che il sole mi appassiona perché fa ombra. “La luce e il lutto”, un titolo di Gesualdo Bufalino che esprime bene questo sentimento. Questa sorta di seme della contraddittorietà profonda che da fatto fisico, atmosferico, diventa anche culturale, psicologico. Da noi il lutto è sempre una cosa molto violenta, teatrale. A volte persino una tragica risata.
Così come la carnalità, la sensualità. Sono rimasto stupito quando, guardando le mie prime fotografie di moda dicevano “Il tuo sguardo sensuale sulle donne…”. Io non penso che la sensualità di un fotografo, se ne ha, si riveli solo quando fotografa le donne, perché nelle mie fotografie nere siciliane, per dire, a me pare che la luce abbia la stessa sensualità che si trova nelle immagini di donne. Foto: Bert Kaufmann – (CC BY-SA 2.0).