"Torno a casa e svuoto lo zaino: i jeans sporchi e forati dal vetro, una macchia di sangue di chissà chi sulle scarpe da tennis, le medicine che ho comprato la scorsa notte in farmacia. Guardo ancora sgomenta le impronte delle scarpe sul retro della mia maglia. Non so quanti miei “fratelli juventini” mi siano passati sopra la schiena. Mi hanno calpestata dopo avermi travolta, mentre una mandria nel panico fuggiva da piazza San Carlo".
Comincia così il racconto della giornalista palermitana Myriam Giacalone, che ha vissuto in prima persona la notte da incubo di Torino, in occasione della finale di Champions League Juve-Real Madrid:" Ero a Torino con alcuni colleghi e amici, tifosi delle Juventus. Volevamo guardare la finale di Champions e sentirci uniti nello sport e nella fede calcistica, speravamo in una festa. Non è stata una festa di sport. Non è stata una festa di società. Non è stata una festa. È stato uno dei momenti peggiori della mia vita".
"Quando mancavano pochi minuti alla fine della partita – ha scritto su Facebook – un botto e un ronzio. Ho talmente tanta confusione in testa che non saprei giurare quale rumore sia venuto prima dell’altro. Sembrava il ronzio di uno sciame. E la mandria impazzita che corre lontana dal maxischermo e mi travolge. Il panico attorno e il panico in me. Ho voltato le spalle per seguire la direzione della corsa, ma dopo nemmeno due passi sono stata scaraventata a terra. Mi hanno corso addosso. Mi sentivo soffocare dai passi che sentivo sulla schiena, soffocare dal terrore del torace schiacciato. Ho subito portato le mani a coprire viso e testa. Ero rannicchiata di fianco e sentivo i vetri rompersi tra un piede e l’altro che mi sorpassava le spalle e la testa. Urla, pianti e sirene. Ho temuto di morire. Le mie dita davanti agli occhi e l’inspiegabile idea di sfilarmi gli occhiali, temevo si rompessero i vetri e speravo ancora di tornare a vedere".
"Appena sono riuscita al alzarmi la piazza era un campo di guerra. Chiazze di sangue per terra e sui pali, scarpe abbandonate e perse nella corsa, vetri rotti e maglie sporche e insanguinate, zaini e borse disseminati. Bambini a piedi nudi che correvano sotto i portici, urla di donne disperate e sofferenti. Volevo scappare anche io, da non so quale nemico, da non so quale pericolo. Gli occhiali infilati nella borsetta a tracolla, la vista offuscata e la corsa sotto i portici, per mettermi spalle al muro, arresa al panico. Volevo poter guardare e capire. Ma guardavo la confusione e non capivo. Spalle al muro come me, una donna seduta a terra con le mani piene di sangue, accanto un ragazzo dai capelli rossi tremava come una foglia e mi ha afferrato la mano, urlandomi in faccia “cosa è successo? Ho paura cazzo ho paura!” mi ha scatenato un attacco d’ansia. Si urlava “attentato”, crederci era immediato".
"Non mi sono accorta subito del gomito sanguinante del braccio graffiato – ha concluso -. Colavo sangue e correvo, senza il tempo di sentire il dolore. Ma appena ferma ad aspettare di radunarci in gruppo alla macchina, ho iniziato a sentire le botte alle spalle, alle ginocchia e alla schiena. Il dolore si faceva più intenso. La lunga coda alla farmacia notturna mi è sembrata spiraglio di civiltà. Paradossale oasi nel panico. Il tempo di scappare pareva finito. Toccava medicarsi".