I rischi del caffè in capsule: ecco cosa hanno scoperto i ricercatori

Per cominciare la giornata, alcuni non possono rinunciare alla classica tazzina di caffè, ma un recente studio ha gettato qualche ombra su quello ottenuto da preparati monodose: «Abbiamo visto che quello in cialde o in capsule di plastica o alluminio è un potenziale veicolo di interferenti endocrini», spiega ad AdnKronos Salute Carlo Foresta, ordinario di Endocrinologia all'Università degli Studi di Padova e presidente della Fondazione Foresta Onlus.

«li ftalati – ricorda – sono agenti chimici aggiunti alle materie plastiche per aumentarne la flessibilità. Sono ovunque, ma non ce ne accorgiamo. E svolgono un'azione simil-estrogenica nel nostro organismo. Secondo recenti ipotesi, aumenterebbero l'incidenza di patologie andrologiche osservata negli ultimi venti anni. In diverse specie animali gli ftalati modificano il funzionamento del sistema riproduttivo e sono ritenuti anche per l'uomo tra quei contaminanti che possono agire negativamente sulla fertilità». «Tutti i prodotti testati, dalle capsule in alluminio a quelle in plastica e materiale biodegradabile, si sono rivelate capaci di rilasciare gli ftalati nel caffè».

«Non vogliamo demonizzare nulla – aggiunge Foresta – anche perché le concentrazioni riscontrate sono nell'ambito dei range consentiti. Ma dev'essere considerato che, anche attraverso questa contaminazione, si contribuisce al raggiungimento dei valori soglia segnalati come nocivi dalle autorità sanitarie nazionali ed internazionali".

I risultati della ricerca, secondo lo specialista, «pongono importanti interrogativi sui criteri indicati per valutare il valore soglia quando non è ancora nota la reale diffusione di queste sostanze che nei singoli casi rientrano nel range, ma è difficile comprendere la globalità dell'assunzione». «Noi siamo, di fatto, la somma di queste esposizioni – conclude Foresta -. Quindi sarebbe importante cercare di capire se, nell'arco della giornata, si superano i limiti dell'assunzione, quantificando i valori medi di esposizione. Una ricerca che aiuterebbe anche a decidere in che modo eventualmente limitare l'esposizione».

Redazione