Nella seconda metà del Cinquecento il messinese Scipione Di Castro scrisse gli Avvertimenti a Marco Antonio Colonna quando andò viceré in Sicilia in cui traccia, fra l’altro, il carattere dei siciliani. Quest’aspetto ha suscitato l’interesse dello scrittore Leonardo Sciascia, che, nelle sue Opere, ce ne offre una sintesi:
«I siciliani – dice il Di Castro – generalmente sono più astuti che prudenti, più acuti che sinceri, amano le novità, sono litigiosi, adulatori e per natura invidiosi; sottili critici delle azioni dei governanti, ritengono sia facile realizzare tutto quello che loro dicono farebbero se fossero al posto dei governanti. D’altra parte, sono obbedienti alla Giustizia, fedeli al Re e sempre pronti ad aiutarlo, affezionati ai forestieri e pieni di riguardi nello stabilirsi delle amicizie. La loro natura è fatta di due estremi: sono sommamente timidi e sommamente temerari. Timidi quando trattano i loro affari, poiché sono molto attaccati ai propri interessi e per portarli a buon fine si trasformano come tanti Protei, si sottomettono a chiunque può agevolarli e diventano a tal punto servili che sembrano appunto nati per servire. Ma sono d’incredibile temerità quando maneggiano la cosa pubblica, e allora agiscono in tutt’altro modo».
Alcuni storici collocano agli inizi del Seicento la nascita dell’ideologia sicilianista, che tende a mitizzare le origini della Sicilia. Nel suo Discorso dell’origine e antichità di Palermo e de’ primi abitatori della Sicilia e dell’Italia (1614) Mariano Valguarnera vuole «demonstrare che la Sicilia fu sempre isola e che non fu mai giunta all’Italia».
Nel Settecento, gli eruditi siciliani nobilitano l’età omerica dei ciclopi, considerati i lontani progenitori dei siciliani. Nelle sue Memorie istoriche (1742) G. B. Caruso asserisce addirittura che i ciclopi«erano al certo di statura a quella de’ nostri simigliantissima».
Nella prima metà dell’Ottocento, l’ideologia sicilianista, sostenuta dall’aristocrazia isolana, si evolve verso il separatismo, fondato sulla teorizzazione della “nazione siciliana”.
Nella seconda metà dell’Ottocento, con l’ingresso della Sicilia nel nuovo Regno d’Italia l’ideologia sicilianista si trasforma in sicilianismo, cioè in difesa tout court dell’onore dei siciliani offeso dai nuovi dominatori romani (reazioni antigovernative per i metodi di lotta al brigantaggio, reazioni per gli esiti dell’inchiesta di Franchetti e Sonnino).
Dagli inizi del Novecento il sicilianismo si colora in modo esplicito di mafiosità (caso Palizzolo).«Se per mafia si intende il sentimento dell’onore portato sino alla esasperazione, insofferenza contro la sopraffazione, generosità…, allora anche io mi dichiaro mafioso»: da quando, nel 1924, fu pronunciata da V. E. Orlando, questa frase è assurta a simbolo di un sicilianismo di stampo mafioso.
Nel secondo dopoguerra l’analisi sul sicilianismo si è molto sviluppata. Leonardo Sciascia di Racalmuto ha criticato una certo sicilianismo tendente ad esaltare, in opposizione alla tesi di Giovanni Gentile di «una Sicilia “sequestrata”, cioè tagliata fuori dal movimento della cultura europea», «una Sicilia aperta e comunicante» e «una cultura vivacemente italiana ed europea». Il racalmutese preferisce parlare di un’insularità d’animo dei siciliani (“sicilitudine”) come conseguenza del susseguirsi delle numerose dominazioni, causa di una paura, nei confronti dello straniero, che con il tempo è diventata esistenziale; un’insularità i cui effetti negativi vengono, da certa cultura siciliana, capovolti in positivi, in «privilegio e forza»:
«L’insicurezza è la componente primaria della storia siciliana; e condiziona il comportamento, il modo di essere, la visione della vita – paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni, incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli affetti, violenza, pessimismo, idealismo – della collettività e dei singoli. […]
E a un certo punto l’insicurezza, la paura, si rovesciano nell’illusione che una siffatta insularità, con tutti i condizionamenti, le remore e le regole che ne discendono, costituisca privilegio e forza là dove negli effetti, nella esperienza, è condizione di vulnerabilità e debolezza. e ne sorge una specie di alienazione, di follia, che sul piano della psicologia e del costume produce atteggiamenti di presunzione, di fierezza, di arroganza (si pensi al discorso che don Fabrizio, nel Gattopardo, fa al piemontese Chevalley: ”I siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla)». […]
D’altra parte l’insicurezza dell’isola, la sua vulnerabilità, la sua tendenza al separatismo, la sua secolare disponibilità all’illusione della indipendenza, hanno portato le potenze dominanti alla concessione di privilegi che appunto servissero a dare illusione di indipendenza a tutti i siciliani e concrete garanzie e sicuri benefici alla classe aristocratica, prima; a quella che approssimativamente possiamo chiamare borghese, oggi. […] Privilegi, di cui il popolo di fatto non ha mai goduto ma sempre è stato pronto a sollevarsi per difenderli. […] Intorno a questi privilegi, quasi sempre per difenderli, qualche volta ad avversarli, si è mossa per secoli, e fino ad oggi, la cultura siciliana».
Il sicilianismo, linfa vitale del sistema di potere della mafia, è definito da Nando Dalla Chiesa, con efficace sintesi, come «un sentimento intenso e confuso di solidarietà tra i siciliani, che si fonda, da una parte, su un radicato vittimismo di massa, dall’altra, sulla teorizzazione sociologica della eccezionalità della civiltà siciliana nel contesto storico nazionale ed europeo» (Il potere mafioso, 1976).
Lo storico Massimo Ganci, pur respingendo fermamente «il sicilianismo reazionario […] sovrastruttura ideologico-politica del blocco agrario» e un «certo “sicilianismo” [che] è stato e forse vorrebbe continuare ad essere il paravento dalle ideologie progressive e l’antemurale contro ogni politica socialmente avanzata», critica fermamente l’«anti-sicilianismo» (La nazione siciliana, 1978):
«Storicamente e politicamente, la “questione siciliana” non può essere diluita nella genericità della “questione meridionale”, poiché vi si oppongono numerose ragioni geografiche, storiche e politiche. Con questo non intendiamo riaprire la “querelle”, ormai superata, intorno al Nord. Oggi si va verso una configurazione diversa dell’Europa, nella quale certi “Stati nazionali”, più o meno artificiosamente costituiti, dal punto di vista costituzionale ed amministrativo (e lo Stato “unitario” italiano è fra questi), tendono a sciogliersi nella più moderna realtà delle “aree regionali”. Detto ciò giova ribadire l’antistoricità e l’inopportunità politica della soluzione separatistica, per quanto riguarda la Sicilia. Non riusciamo, quindi, a comprendere certe reazioni “antisicilianistiche”, di siciliani, giunte al limite del grottesco e al fondo del più superficiale provincialismo. È ben provinciale, infatti, e frustrato, chi disprezza la propria gente, vergognandosi di farne parte, e chi disprezza la tradizione del proprio paese – qualcuno, infatti, afferma che non esiste una tradizione siciliana – certo che, per questo suo comportamento, il “settentrionale” che lo ascolta, lo distingua dalla “massa damnationis” sudista e lo salvi da essa. È ben provinciale e frustrato chi pensa ed agisce così. Ed anche illuso. Questo suo comportamento gli procaccia dal “settentrionale” – bene inteso da quello intelligente – ironia, compatimento, disprezzo».
«Se il significato del termine “Nazione” – osserva Ganci – consiste nella capacità di dare vita ad uno “stile proprio di vita” e a manifestazioni d’arte e di cultura che siano autenticamente sè stesse, non vediamo come questa definizione non competa alla Sicilia»: si tratta di precisare se di questo legittimo “stile proprio di vita” devono far parte quei sottovalori tramandatici dalla tradizione di cui diremo. Le osservazioni di Ganci sono condivisibili a condizione che dalla nostra “tradizione nazionale” si isolino i germi malefici per RISANARLA.
Una delle odierne espressioni organizzate del neosicilianismo è l’O.D.R.I.S. (Officina di Documentazione, Ricerca e Studi sull’Identità Siciliana) che lo scorso anno ha organizzato un convegno sul tema “La Nazione Siciliana tra cultura e politica oggi”. Secondo il sicilianista Orazio Vasta, l’iniziativa ha ottenuto come risultato «la rottura della congiura del silenzio sulla storia dell’antica Trinakria»; risultato considerato positivo perché «la memoria storica dei Siciliani è pressoché inesistente, e quindi, è tutta da ricostruire». Il Vasta dichiara di riconoscersi «nei valori del verbo cristiano, della SANA TRADIZIONE, della lotta alla mafia, del sicilianismo democratico e non violento».
Sicilianismo e mafiosità
Il sicilianismo si alimenta di sub-valori, concetti, sentimenti che ne sostanziano la filosofia, sia quella del senso comune sia quella elaborata dell’intellighenzia: il silenzio («’A megghiu parola è chidda ca ‘un si dici»), l’onore (il “delitto d’onore” è stato considerato fino a qualche anno fa l’orgoglio etnico sicilianista), la cavalleria (la vecchia mafia, come la “Cavalleria” dei Sanfilippo Rineli di Favara, viene indicata con lo stereotipo di una cavalleria rusticana erede di mitici “vendicatori”), la famiglia (essa sta ad indicare la cellula della società mafiosa, sistema di relazioni sociali, politiche, economiche e culturali guidata da un capofamiglia; “zu” o “zi” viene usato come segno di rispetto, talvolta anche in ambito scolastico), l’amicizia (“Amico degli amici” è il favoreggiatore o il protettore politico della mafia), la gerarchia (la mafia è organizzata secondo una rigida struttura piramidale; nelle istituzioni pubbliche la funzione, a qualsiasi livello gerarchico, non è intesa come servizio, ma come strumento di potere), la rassegnazione (il fatalismo di De Roberto e Tomasi di Lampedusa induce al rifiuto della politica intesa come praxis, come strumento di trasformazione della realtà nei suoi aspetti regressivi).
Essi sono riscontrabili ampiamente nel folklore (canti, proverbi ecc.), nella poesia dialettale, nella grande letteratura. Il secolo scorso ne parlò per primo il funzionario di P.S. e criminologo Giuseppe Alongi di Prizzi (PA), che nel suo saggio Maffia individua un «codice dell’omertà» costituito da «massime» che sono «il contenuto, il nocciolo del senso morale dei maffiosi». Alcuni detti riportati in quest’opera «sanciscono l’ubbidienza, il silenzio, il rispetto verso la maffia, altri sono dei veri motti di sfida alla giustizia ed all’autorità»:
1. A cu ti leva lu pani levacci la vita;
2. Cappeddu e malu passu dinni beni e stanni arrassu;
3. Scupetta e mugghieri nun si mprestanu;
4. Si moru mi drivocu, si campu t’allampu;
5. Vali cchiù n’amicu nchiazza ca cent’unzi nsacca;
6. La furca è pri lu poviru, la giustizia pri lu fissa;
7. Cu avi dinari e amicizia teni nculu la giustizia;
8. Zoccu nun ti apparteni nè mali nè beni;
9. Quannu c’è lu mortu bisogna pinsari a lu vivu;
10. La tistimunianza è bona sinu a quannu nun fa mali a lu prossimu;
11. Cu mori si drivoca, cu campa si marita;
12. Carzari, malatii e nicissità provanu lu cori di l’amici.
Alcuni sentimenti, come l’odio, la vendetta, l’amore, l’amicizia, il patimento e la morte, sono cantati dal poeta prizzese Vito Mercadante nello spazio breve di una quartina del componimento “La Sicilia” (Focu di Muncibeddu, 1910). Il poeta vernacolo parte da Prizzi per il servizio di leva e durante il viaggio ammira con stupore le bellezze di Palermo, Napoli, Firenze, Milano, Venezia, ma il suo cuore addolorato ritorna alla Sicilia, «terra ‘ncantata, / sbucciata comu un ciuri ‘ntra lu mari, / terra di tantu amuri e scunsulata” […], / unni l’odiu si ferma a la vinnitta, / unni l’amuri adduma sinu all’ossa / e l’amicizia sulu po finiri, / comu lu patimentu, ‘ntra la fossa». L’odio e la vendetta sono da tempo remoto i sentimenti ardenti di un popolo di vinti che Mercadante definisce «razza forti e ginirusa». Frasi come «mi alimenterò d’odio», circolanti perfino in ambito scolastico, o forme di vendetta come il recente tentato omicidio di Favara sono manifestazioni di regressione verso società fondate sulla legge del taglione, a parziale giustificazione delle quali c’è solo la considerazione della latitanza o della incapacità degli organismi statuali addetti a dirimere le controversie. Sono sentimenti questi che sarebbero evidentemente disapprovati dal dimenticato M. L. King; sentimenti primordiali cui bisogna sostituire i principi di legalità e di solidarietà per costruire la civiltà dell’amore e dell’amicizia.
In tempi relativamente recenti, l’etnologo Antonino Uccello di Canicattini (SR) nel libro Carcere e mafia individua nei canti dei carcerati non tanto la mafia quanto i modi del “sentire mafioso”, nel senso del Pitrè.
Dei canti dei carcerati segnaliamo due testi, interpretati dalla voce struggente della cantante Rosa Balistreri nel long-plain Amore tu lo sai la vita è amara, utilizzabili in una prospettiva interdisciplinare allargata alla musica:
1. ‘Nfamità
«Lu libru di li ‘nfami t’accattasti
e la prima ‘nfamità mi la facisti.
Non sentu nè rilogiu nè campana,
ca mi sentu ‘ncatinatu comu un cani.
Sentu chiamari mamma e m’allammicu,
chi mamma? m’arrispunni la catina.
Ammazzari vurria cu si vosi:
na palla vecchia e un pugnu di lupara.
2. E ‘nta la Vicaria
E ‘nta la vicaria ci su li guai
ah! massimamenti a cu non avi a cui,
pì tutti vennu amici e pi mia mai
a li grati m’afferru a trari a dui.
Sulu suliddu mi cuntu li guai
e la notti non dormu no, iu pensu a vui,
pensu a dda sfortunata di me matri
a quannu la persi e non la vitti chiui».
A proposito del libro di Uccello, Sciascia osserva che «la mafia non canta; ma il sentimento mafioso, purtroppo, canta anche in tanti siciliani che mafiosi non sono». Quanto agli «attributi del sentire mafioso», il racalmutese ne elenca alcuni: «la repugnanza a ricorrere alla giustizia penale anche per affermare il proprio diritto […] e anche per difendere la propria sicurezza; l’omertà; la tendenza ad operare di persona o per segreti tramiti ai fini della vendetta o del risarcimento; lo scarso rispetto per l’altrui o pubblica proprietà; l’inclinazione a corrompere i pubblici poteri, cioè gli individui che li rappresentano, la pietà familiare e l’amicizia spinte agli estremi; il disprezzo verso il traditore, il delatore, lo sbirro […]»
Di sicilianismo è impregnata parte della cultura siciliana, da Verga, Capuana, Pitrè arriva ai loro epigoni, fra cui si distingue lo storico Santi Correnti che da un lato è costretto ad ammettere una realtà isolana fatta «di ombre», ma dall’altro esalta acriticamente la storia della Sicilia attraverso l’apologia dei siciliani illustri e di quelli meno noti:
«Non posso accettare che il popolo siciliano, che ha dato musicisti come Vincenzo Bellini, la cui melodia Wagner definì come “la più pura che sia mai sgorgata da cuore umano”; scrittori come Giovanni Verga e come Giuseppe Tomasi di Lampedusa; drammaturghi come Luigi Pirandello, Premio Nobel 1934; poeti come Salvatore Quasimodo, Premio Nobel 1959; scienziati come Ettore Majorana per la fisica, Filippo Eredìa per la metereologia, e Stanislao Cannizzaro per la chimica; industriali come i Florio; politici come Francesco Crispi, Vittorio Emanuele Orlando, Antonio di San Giuliano e Luigi Sturzo; economisti come Angelo Majorana; educatori come Giuseppe Lombardo Radice, filosofi come Giovanni Gentile e folkloristi come Giuseppe Pitrè, possa essere considerato in blocco come mafioso e sanguinario».
Il prof. Correnti incorre nell’errore contrario dei denigratori della Sicilia: oltre ad elogiare oltremisura i meriti di alcuni siciliani, riduce la mafia a malaffare e violenza, mali di ogni luogo e di ogni tempo:
«Quando si comprenderà che, nella realtà dei fatti, mafia significa “Tangentopoli + sangue”, si sarà fatto un grande passo avanti, verso l’effettiva comprensione della Sicilia d’oggi».
I mali della Sicilia derivano, secondo lui, da degeneri scrittori malelingue che descrivono «ossessivamente» le sue ferite e dall’esosità del biglietto d’aereo. C’è da dedurre che, se ciò non accadesse, la Sicilia diventerebbe automaticamente l’ambita meta del turismo mondiale. Ecco quindi, per il moderno inquisitore, trovati i veri responsabili delle sventure siciliane. Tali scrittori meriterebbero il rogo e i loro libri l’indice. Ci stranizza che lo storico moralista non abbia strumentalizzato la polemica di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia” per attaccare alcuni giudici che nei mass media parlano di mafia e addirittura auspicano, come Giancarlo Caselli, una mobilitazione delle coscienze contro la piovra.
«C’è veramente da sospirare di sollievo, se oggi la Sicilia continui a vivere e a prosperare, se si pensa a quanti, italiani e non italiani, non fanno altro che sottolineare ossessivamente soltanto i suoi lati negativi, come se esistessero soltanto quelli; e se si pensa che non si agevola per nulla l’unica ricchezza di quest’isola, il turismo (si noti che il biglietto aereo Milano-Tunisi ha un costo inferiore a quello Milano-Catania), e che gli scrittori siciliani di maggior nome hanno fatto inspiegabilmente a gara, per dipingere la loro terra natale con i colori più foschi».
La imperdonabile colpa, a suo dire, di tanti autorevoli siciliani, come Giarrizzo, Sciascia, Bufalino, Consolo, è quella di mettere in evidenza esclusivamente le ombre della Sicilia:
«Per Leonardo Sciascia, non c’è nulla che abbia valore positivo in Sicilia: la stessa bellezza dell’isola “è inutile”; la Sicilia è “una vasta area di follia”, e non ha “mai generato uno scienziato, dato che c’era l’Inquisizione”; Verga era “uno scrittore mafioso” e, per soprammercato, “aveva i capelli rossi” (e in realtà erano invece bruni); Luigi Pirandello era uno che scriveva “facilmente e freddamente”; Tomasi di Lampedusa era “in malafede” […]».
La nostra convinzione è invece che la Sicilia deve sì difendersi da denigratori e critici in malafede (e fra questi più che Giarrizzo, Sciascia, Bufalino e Consolo, metteremmo Moravia, che definendo«ogni siciliano […] tendenzialmente mafioso» ha ingiustamente criminalizzato l’intero popolo siciliano), ma principalmente, con buona pace dell’emerito sicilianista Medaglia d’Oro della P.I., deve riappropriarsi criticamente della sua storia e della sua cultura per potere restaurare la sua identità falsata dai miti sicilianisti e sporcata dalle secolari incrostazioni della subcultura mafiosa. Una identità che il prof. Gaetano Gucciardo, animato da un radicalismo giustificabile solo con la legittima aspirazione ad uscire dal pantano della mafiosità, vorrebbe “smantellare” per costruirne una moderna ed europea, con il rischio, però, da un lato di recidere le nostre radici sane e dall’altro di omologarsi a culture che tendono all’edonismo, al rifiuto dei valori veri, al darwinismo sociale, alla pura economia di mercato).
Da: Didattica per un’educazione antimafia di Salvatore Vaiana – Fonte: Per la Sicilia
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