Il fronte Isis, ormai è noto, si arricchisce dei cosiddetti "terroristi bambini". Un altro dramma, quello dei giovani combattenti che si uniscono allo Stato Islamico, raccontanto con un bellissimo articolo da L'Espresso. Ve lo proponiamo per intero qui di seguito:
Il più giovane terrorista del Regno Unito è un quindicenne di Blackburn, una città di centomila abitanti a nord-ovest di Manchester. Lo scorso mese è stato accusato e condannato all'ergastolo per terrorismo. Terrorismo virtuale. Era in contatto con un combattente australiano dello Stato islamico, Neil Prakash, nome di battagliata Abu Khaled al-Cambodi, che lo aveva presentato via internet a un simpatizzante dell'Isis di Melbourne, Sevdet Besim. Il quindicenne di Balckburn insisteva con il diciottenne Besim affinché decapitasse un poliziotto durante una parata militare. L'attentato non c'è stato. Il ragazzino di Blackburn, di cui non è stato reso noto il nome, è in prigione. Ci resterà per tutta la vita.
È il jihadismo 2.0. Viaggia su internet. Si nutre dei contenuti della propaganda dello Stato islamico, che diventano virali. Difficile, per gli investigatori, distinguere i rischi effettivi da quelli apparenti, nel mare magnum della rete, diventata un potente mezzo di mobilitazione e reclutamento. Uno strumento di connessione cruciale tra i foreign fighters e i simpatizzanti che non possono raggiungere il Califfato.
I «nuovi soldati francesi del jihad si chiamano Yassine, Alexandre, Abu Naim, Clémence, Éric, Omar, Souleymane», racconta il giornalista David Thomson, inviato di Radio france international, nel libro-inchiestaLes Francais djihadistes. Quelli britannici hanno nomi diversi, ma gli stessi obiettivi, spiega Raffaello Pantucci, direttore dell'International Security Studies al Royal United Services Institute di Londra, nel suo We Love Death as You Love Life. Britains' Suburban Terrorism. Sono entrambi libri importanti, dopo gli attentati di Parigi. Quello diDavid Thomson lo è in particolare per capire il jihadismo 2.0.
Non ripete infatti la storia dei grandi leader di al-Qaeda, o degli ideologi che hanno anticipato il ritorno del pensiero islamista radicale, ma offre quella degli «apprendisti jihadisti»: «gli adolescenti che hanno appreso l'Islam jihadista su internet, lontano dalle moschee, all'insaputa dei loro genitori».
Il libro raccoglie 50 storie emblematiche. Tranne due casi, sono tutti giovanissimi: tra i 17 e i 28 anni. Tutti nati e cresciuti in Francia, a eccezione di un senegalese residente in Francia e di un belga fiammingo. Metà di loro ha commesso piccoli reati, prima di votarsi alla causa jihadista, l'altra metà è completamente sconosciuta alle forze di polizia. Nessuno di loro ha scoperto il jihadismo nelle moschee o in prigione: «il loro unico denominatore comune è Internet e la cultura delle reti social che sono arrivate a modificare profondamente il jihadismo francese», scrive David Thomson.
Sulla rete e nella realtà, i migliori reclutatori sono i foreign fighters di ritorno. Sanno spiegare le ragioni del jihad. Il dovere di seguirlo. Omettono gli aspetti negativi. Mobilitano. Orchestrano attacchi domestici, come sembra aver fatto Abdel Hamid Abaaoud, la presunta mente dietro gli attacchi di Parigi . A rimanere invischiati nella tela del reclutamento, tanti giovani, come abbiamo visto. Molti dei quali hanno già maturato una conoscenza sommaria dello Stato islamico ammirandone le gesta sui social. Vogliono fare la guerra. Ambiscono a partecipare. I foreign fighters di ritorno gliene offrono l'occasione. Gli investigatori sanno che ormai bisogna tracciare la doppia pista, quella che unisce in una combinazione esplosiva i foreign fighters e i simpatizzanti cresciuti a jihad e youtube, nei nostri stessi condomini.
Gli attacchi di Parigi ne sono un esempio: sono «un problema di sicurezza interna», come ha dichiarato l'alto rappresentante dell'Unione europea per gli affari Esteri Federica Mogherini, o una minaccia che viene dall'esterno? Bisogna preoccuparsi dei foreign fighters di ritorno dalla Siria, o dei jihadisti di “casa nostra”?
Il profilo degli attentatori di Parigi sembra indicare che la risposta stia nel mezzo. La pista belga conduce infatti in Siria, dove avrebbero soggiornato almeno 4 dei jihadisti coinvolti nell'attacco alla capitale francese. Una duplice minaccia. Una pista doppia. Che parte dall'Europa, arriva in Siria, per poi tornare nel vecchio continente. Insieme ai foreign fighters che rientrano nei paesi d'origine, dopo essersi messi al servizio del Califfo.
Secondo l' International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence di Londra(Icsr) sarebbero più di 20.000 i combattenti stranieri che militano nelle organizzazioni islamiste armate attive in Siria e Iraq. Un quinto, 4.000, sarebbero residenti o nati in Europa.Così come sono europei almeno 7 degli 8 attentatori di Parigi. Il rapporto dell'Icsr risale all'inizio dell'anno e registra un incremento significativo (quasi il doppio) rispetto a quello del dicembre 2013. L'ultimo rapporto sul terrorismo in Europa dell'Europol, r accontato dall'Espresso , conferma la tendenza.
È una tendenza che preoccupa soprattutto la Francia, uno dei paesi europei che insieme al Regno Unito e alla Germania “produce” il più alto numero di combattenti. Secondo unastima del governo francese , aggiornato allo scorso luglio, sono 1818 i francesi implicati nella filiera jihadista in Siria o in Iraq. Ma il fenomeno coinvolge anche Danimarca, Svezia e Belgio.Quest'ultimo è il paese che registra il più alto numero di foreign fighters (tra i 350 e i 500) in rapporto alla popolazione (11 milioni di abitanti).
I foreign fighters che dall'Europa si sono uniti al jihad in Siria o Iraq hanno cominciato a tornare a casa. Sono soldati ben addestrati. Ideologicamente motivati. Ben indottrinati. Potenzialmente in grado di colpire i paesi di origine. Valutare il reale pericolo che rappresentano è difficile. Qualcuno ha provato a farlo. Secondo i dati raccolti dagli studiosi Thomas Hegghammer e Peter Nesser nella ricerca “Assessing the Islamic State's Commitment to Attacking the West” , dal gennaio 2011 allo scorso giugno ci sarebbero stati 69 piani di attacco contro l'Occidente: 37 in Europa, 25 negli Stati Uniti, 7 in Australia. Di questi, ne sarebbero stati realizzati 19 (28%), di cui 12 in Europa, con il coinvolgimento di 120 persone.
In quasi la metà dei casi (30 su 69), ci sarebbe una connessione con lo Stato islamico. La “connessione” spesso è solo ispirazione, non indica una regia diretta, ma i dati preoccupanti non mancano: dei 33 attacchi pianificati contro l'Occidente tra luglio 2014 e giugno 2015, 26 rimanderebbero allo Stato islamico. Una chiara indicazione della crescente influenza del marchio del Califfo sul jihadismo transnazionale. E, forse, di una vera e propria evoluzione strategica.
Ma che ruolo hanno avuto i foreign fighters di ritorno negli attacchi ideati o realizzati finora contro obiettivi occidentali? I dati del rapporto citato dicono che 16 dei 69 attacchi registrati coinvolgono almeno un combattente straniero e che, di questi, 9 hanno a che fare con individui che erano stati in Siria. La prima conclusione sembra rassicurante: il rapporto tra il numero di combattenti che ritornano in patria e gli attacchi contro i loro paesi d'origine è molto basso: 11 su 4.000 circa, un rapporto di 1 a 360, anche se altre ricerche suggeriscono che tra l'11 e il 25% dei combattenti irregolari diventino terroristi, tornati a casa.
Quel che è certo è che solo una parte dei foreign fighters sceglie di portare il jihadismo nel cuore dell'Europa. Qualcuno ne torna disilluso: in Siria e Iraq non ha trovato ciò che cercava. Qualcuno si accorge che il salafismo jihadista esige troppo: oggi i potenziali jihadisti raggiungono il fronte molto più facilmente di quanto avvenisse negli anni Novanta , nel jihad degli afghani contro i sovietici, ma a questa facilità corrisponde una minore adesione ideologica. Sono di più, ma meno convinti. Sulla rotta di casa incontrano inoltre i funzionari dell'intelligence europea, ormai all'erta. Ma il serbatoio da cui può attingere lo Stato islamico rimane molto ampio.L'effetto “riflusso” dei foreign figthers di ritorno si mostrerà in tutti i suoi effetti solo negli anni futuri. Durerà almeno una generazione.
Anche perché rimangono perlopiù oscure le motivazioni della scelta jihadista. Le analisi più superficiali incolpano l'Islam, nell'interpretazione di una particolare corrente del salafismo, la corrente teologica dell’Islam sunnita che punta alla purificazione della fede e che contrassegna ideologicamente gran parte del jihadismo contemporaneo. Ma la religione spesso è solo un pretesto, un mezzo, un'ancora di salvezza nello spaesamento. «Lo Stato Islamico offre risposte e ricompense inestimabili a chi ha bisogno di certezze», ha spiegato lo psichiatra Corrado De Rosa su l'Espresso.
Il deputato socialista francese Sebastien Pietrasanta è l'autore di un rapporto commissionato dal primo ministro Manuel Valls e dal ministro degli Interni, Bernard Cazeneuve, La deradicalizzazione, strumento della lotta contro il terorrismo .Pubblicato lo scorso giugno, è dedicato ai processi di de-radicalizzazione dei jihadisti, ma offre molte informazioni utili per comprendere anche il processo di radicalizzazione. «Il fenomeno della radicalizzazione non ha niente a che vedere con la religione», sottolinea il prefetto Pierre N'Gahane, segretario generale del Comité interministériel de prévention de la délinquance. La radicalizzazione è una via d'uscita a una falla identitaria, prima ancora che un desiderio autentico di religiosità.
Anche per Marc Trevidic, giudice istruttore alla sezione anti-terrorismo del Tribunale di Parigi, la religione è un pretesto: la risposta a una fragilità, a una rottura, alla frustrazione di sentirsi esclusi dalla comunità maggioritaria. Di fronte a questa vulnerabilità – dentro un percorso che passa per l'indignazione legittima, la ribellione, un senso di persecuzione e poi il rifiuto di conformarsi – si reagisce ancorandosi a un'identità che l'antropologo Dounia Bazar definisce come «prêt à penser». Lo Stato islamico, separando nettamente il puro dall'impuro, la verità dal complotto, il giusto dall'ingiusto, offre un kit completo, «una protesi identitaria», un orizzonte di riferimento sicuro, un'interpretazione millenarista e apocalittica del mondo.
Gli attentati di Parigi servono a questo. A terrorizzare il nemico, a reclutare nuovi militanti. E soprattutto a polarizzare le posizion i. Affinché gli indecisi decidano da che parte stare. O di qua, nel Dar al-Islam, la terra della fede, o di là, nel Dar al-Harb, la terra della depravazione. Meglio ancora se all'interno dei confini di al-Dawla, lo Stato islamico.
Gli attentati di Parigi sono un atto di forza brutale. Rispondono al motto dello Stato islamico “Baqiya wa tatamaddad”, “persistere ed espandersi”. Riflettono la natura intrinsecamente espansionistica del progetto del Califfato. Ma segnalano anche una debolezza. La brutalità viene portata nel cuore dell'Europa perché all'interno dei confini del Califfato le cose non funzionano come prima. Negli ultimi tre anni lo Stato islamico ha ancorato strettamente le azioni di reclutamento e finanziamento alla conquista territoriale, ai successi sul campo. Ora le cose stanno cambiando, come dimostra tra l'altro la riconquista da parte delle forze curde della cittadina di Sinjar, in Iraq. Lo Stato islamico perde porzioni di territorio, i jihadisti muoiono sul campo, il ricambio degli operativi non è alto quanto lo era fino a un anno fa, crescono le defezioni.
«Per sostenere il proprio brand e la base di fan a livello globale, lo Stato islamico ha bisogno di mostrarsi vincente», ricorda Clin Watts , ricercatore del Center for Cyber and Homeland Security alla George Washington University, già agente speciale dell'Fbi per l'antiterrorismo. Se non si possono ottenere vittorie sul terreno di battaglia da diffondere sui social, allora l'attenzione dei media va conquistata con azioni terroristiche diverse. Quelle di Parigi hanno avuto successo, secondo i canoni efferati del Califfo. Dobbiamo aspettarcene altre, in futuro: «sono ripetibili, economiche, efficaci». La manovalanza non manca.