Conosciuto anche come Giacomo da Lentini; 1210 circa – 1260 circa
fu notaio imperiale di Catania e poeta considerato da molti il caposcuola del cenacolo poetico siciliano fiorito alla corte di Federico II.
Dante lo chiama "'l Notaro" (Divina Commedia, Pg. XXIV, 56) per antonomasia e lo considera l'esponente tipico della poesia di corte.
I versi di Jacopo sono caratterizzati da varietà tematica e abilità espressiva e, se pur cadono talvolta in vuote espressioni formali, riescono ad offrire liriche d'amore spontanee e vivaci.
Egli compose poesie in forma dialogata, ma il suo nome rimane legato all'invenzione del sonetto, il componimento poetico di quattordici endecasillabi, che per secoli sarebbe stato ampiamente utilizzato e sviluppato, come una forma metrica quasi classica, dai maggiori poeti lirici europei.
Il "nodo" che trattenne Guittone (esponente della Scuola Toscana), Jacopo da Lentini (esponente della Scuola Siciliana) e Bonagiunta Orbicciani (che trasportò in ambiente toscano l'esperienza poetica siciliana) al di là del "dolce stile" inaugurato da Dante e dalla sua cerchia di amici, fu proprio la concezione dell'amore come passione e non come virtù od introspezione.
Madonna dir vo voglio
Madonna, dir vo voglio
como l’amor m’à priso,
inver’ lo grande orgoglio
che voi bella mostrate, e no m’aita.
i lasso, lo meo core,
che ’n tante pene è miso
che vive quando more
per bene amare, e teneselo a vita.
Dunque mor’e viv’eo?
No, ma lo core meo
more più spesso e forte
che no faria di morte – naturale,
per voi, donna, cui ama,
più che se stesso brama,
e voi pur lo sdegnate:
amor, vostra mistate – vidi male.
Chi non avesse mai veduto foco
[C]hi non avesse mai veduto foco
no crederia che cocere potesse,
anti li sembraria solazzo e gioco
lo so isprendor[e], quando lo vedesse.
Ma s'ello lo tocasse in alcun loco,
be·lli se[m]brara che forte cocesse:
quello d'Amore m'à tocato un poco,
molto me coce – Deo, che s'aprendesse!
Che s'aprendesse in voi, [ma]donna mia,
che mi mostrate dar solazzo amando,
e voi mi date pur pen'e tormento.
Certo l'Amor[e] fa gran vilania,
che no distringe te che vai gabando,
a me che servo non dà isbaldimento.