Angela Marino ci racconta i suoi ricordi del Natale, quelli legati ai riti e alle tradizioni di un tempo.
Quando ero bambina, subito dopo i Morti, cominciavano i preparativi per l’inverno: si metteva la maglietta intima a maniche lunghe. Si comprava la stoffa e si contattava la sarta per fare i cappotti e gli altri indumenti invernali, si tiravano fuori “manti e cuttunini” ( coperte di lana e trapunte) per farle aerare e tenerle pronte per l’arrivo del freddo, e soprattutto, si cominciava a pensare a “li cosi di Natali”.
“Li cosi di Natali” erano i dolci, tanti, tanti dolci, che ogni famiglia preparava prima di Natale e che avrebbero poi costituito il dessert, le merende e gli spuntini per tutto l’inverno.
La prima operazione consisteva nel “cogliri l’ova”: a partire dalla metà di novembre, infatti, quelli che avevano le galline, cominciavano a scegliere le uova più belle ed a conservarle “pi li festi”(per le feste natalizie), sarebbero servite non solo per fare i dolci della famiglia ma anche per regalarle ad amici, parenti e vicini di casa che non avevano polli.
A dicembre, poi, cominciavano i preparativi veri e propri: venivano schiacciate le mandorle che poi sarebbero state lievemente sbollentate e spellate o tostate e macinate per preparare i vari tipi di dolci; venivano macinati i fichi secchi, si comprava il miele, si controllava che il vino cotto fosse riuscito bene e poi si comprava tanta farina, tanto zucchero, ammoniaca, vanillina, cannella, “diavulina”(minuscoli confettini colorati) e quanto altro poteva servire.
Poi si sceglieva la data in cui fare “li cosi di Natali”.
Visto che i miei lavoravano, veniva generalmente scelto un fine settimana o qualche “ponte”.
Spesso “li cosi di Natali” venivano preparati in comune da più famiglie di parenti, amici, vicini di casa e così diventavano una piacevole occasione per stare insieme, spettagolare, raccontare barzellette spesso ingenuamente osé.
Nella mia primissima infanzia i miei genitori, cuocevamo i dolci natalizi in un fornetto che faceva parte della nostra cucina in muratura e quindi bastava appena solo per noi, ma poi avevano deciso di far costruire un grande forno a legna in un pianterreno e da allora abbiamo cominciato a fare “li cosi di Natali” insieme ai cugini dirimpettai e ad altri amici.
Un vero divertimento, specie per noi bambini anche perché la “stanza del forno”. si affacciava su un pezzo di terreno incolto dove si poteva uscire a giocare senza alcun pericolo.
Ogni anno si preparavano biscotti, dolcetti alla mandorla, ed altri dolci a lunga conservazione, ma quelli che non potevano mancare erano “li mastazzoli” e “li chini”. Le prime potevano essere di due tipi: “di meli” (come i moderni rametti di miele, ma di forma rettangolare e decorate con scritte o disegni a rilievo) o “di vinu- cottu” (stesso tipo di dolce ma a base di vino cotto). “Li chini” , invece, erano dei cannoli di biscotto ripieni di un impasto a base di fichi, mandorle e miele o vino cotto (“chini di ficu”) o farciti con mandorle tritate grossolanamente e impastate col miele(“chini di mennula”). “Li chini” corrispondono più o meno al “buccellato “ palermitano, ma non al “purciddratu” agrigentino che invece consiste in una corona di pane ( e non di biscotto) farcita del solito ripieno a base di fichi.
Alla fine dei lavori, piattini colmi di dolci venivano scambiati tra amici e parenti e soprattutto tra vicini di casa e c’erano grandi commenti sulla loro cottura, morbidezza, presentazione estetica, ecc. I restanti venivano conservati , almeno a casa mia, dentro scatoloni di latta, pronti per essere utilizzati durante le riunioni natalizie e dopo, ancora per lungo tempo.