La tradizione delle Trizzi di Ficu.
- Fichi secchi siciliani, un’usanza e un’irrinunciabile rituale.
- Una di quelle cose fatte in casa, in famiglia.
- Angela Marino ci racconta perché è un momento speciale.
Ai tempi della mia primissima infanzia, spesso i mesi estivi servivano anche per preparare cibi e condimenti da usare durante l’inverno. Per i miei, ad esempio, il soggiorno in campagna era in buona parte caratterizzato da queste preparazioni: si facevano i fichi secchi siciliani (li ficu sicchi), l’uva passa (la passula), il concentrato di pomodoro (lu strattu) I capperetti sotto sale o aceto (la chiapparina), le olive (aulivi e passuluna), il vino cotto e le relative bucce d’arancia (lu vinu cottu e li scurciteddri d’aranci) e tutta una serie di marmellate: cutugnata, cucuzzata (zuccata), marmellata di piruna (prugne), di persici (pesche), di pircopa (albicocche)…
Fichi secchi siciliani: come si preparano
Ricordo che la preparazione dei fichi secchi era soprattutto di competenza del nonno, anche se spesso era necessaria anche la collaborazione degli altri familiari. La fase preparatoria iniziava ai primi di agosto con la preparazione di “lu jazzu) il giaciglio): una struttura di ”canni, ferli e ristuccia” (canne, steli di agave, stoppie) su cui fare essiccare i fichi. “Lu jazzu” veniva approntato generalmente accanto alla vigna ed al frutteto, non molto lontano da casa , ma non troppo vicino per evitare che le vespe e gli altri insetti attratti dall’odore dei fichi venissero a disturbarci. Il nonno lo costruiva piuttosto alto in modo che gli animali randagi non potessero raggiungere la frutta , così il “sotto-jazzu” diventava il mondo incantato di noi bambini che lo utilizzavamo per i nostri giochi, le nostre riunioni segrete, le nostre merende con gli amici…
A questo punto si passava alla fase successiva a cui collaborava buona parte della famiglia: venivano scelti e raccolti dei bellissimi fichi, bianchi e neri, grossi, tondi e più o meno della stessa dimensione, che venivano tagliati e aperti in modo da formare una specie di occhiale e deposti in bell’ordine sul “jazzu” con la parte aperta esposta al sole. Ci sarebbero rimasti per lungo tempo – non ricordo con precisione, ma almeno una decina di giorni- accuratamente coperti ogni sera con una “nciratina” (tela cerata) per difenderle da “lu ngurdu” (l’umidità della notte). Poi si pensava agli altri fichi, a quelli rimasti sulla pianta perché piccoli o di forma imperfetta e a quelli caduti a terra per il vento o per le scosse inferte all’albero durante la raccolta: anche questi venivano raccolti e, scartati quelli bacati o marci o secchi, venivano esposti al sole per disseccarsi: sarebbero diventati “passuluna di ficu” meno belli ma altrettanto buoni, utilissimi soprattutto per la preparazione dei dolci natalizi.
Quando i fichi erano asciutti, si facevano i “chiappi”
Quando i fichi apparivano ben asciutti ma ancora morbidi, si facevano le “chiappi” cioè si attaccavano i fichi tra loro a due a due dalla parte tagliata. Intanto il mezzadro aveva provveduto a preparare una corda di “giummarra” (vegetale spontaneo della Sicilia, una specie di palmizio Washington nano, che serviva a fare corde o scope). A questo punto le “chiappi” venivano infilzate con un grosso ago da materassi e infilate nella corda in modo da formare un lungo serpentone fermato ai due estremi da due piccole carrube. Con “li chiappi” restanti si facevano degli “spicchialeddri” per i bambini: gruppi di una decina di chiappe infilzati su due spiedi di canna. Infine sia “li trizzi” che “li spicchiala “ e li passuluna” si “vuddrivanu”( si bollivano) per sterilizzarli.
A questa operazione i bambini potevano assistere solo da lontano. Per evitare qualche spiacevole incidente con l’acqua bollente, i fichi, infatti venivano scottati in un pentolone e stesi nuovamente sul “jazzu” fino alla completa asciugatura. Poi ogni “ trizza” veniva arrotolata in cerchi concentrici formando una grossa ciambella e avvolta in una” mappina” (strofinaccio di cotone generalmente a quadretti), altrettanto si faceva con gli altri fichi ed il tutto veniva riposto in cantina.
Non solo fichi secchi siciliani: la “passula”
Un po’ più semplice la preparazione della “passula” (uva passa): venivano scelti dei bei grappoli di uva “nzolia” (insolia), che venivano sciorinati su una canna tesa generalmente tra due alberi o tra due rami distanti di uno stesso albero,venivano lasciati al sole per parecchi giorni, avendo cura di portarli in casa o di coprirli la sera, poi, quando gli acini si erano avvizziti ed avevano preso un colore marrone , venivano sterilizzati con il solito metodo, asciugati e conservati spesso ancora appesi alla loro canna. La frutta secca sarebbe stata ripresa a novembre per la Festa dei Morti, In quell’occasione i bambini l’ avrebbero “acchiata” (trovata) ,insieme ad altra frutta invernale (arance, mele cotogne, nespole , noci, nocciole, etc.) in una grande cesta sul tavolo buono insieme ad un grande vassoio di dolci caratteristici e altri doni (“li cosi di li morti”).
Il momento più glorioso dei fichi secchi siciliani era senza dubbio il periodo prenatalizio, in cui venivano preparati ingenti quantità di dolci natalizi ( chini e purciddrati) fatti con biscotto o pane farciti da un composto a base di fichi secchi.
Comunque i fichi secchi e l’uva passa non erano usati solo nei dolci, e, specialmente i primi, spesso servivano come spuntino o merenda a casa o a scuola.
Nei ceti meno abbienti, poi, “passula e ficu” insieme a “favi e ciciri caliati” (fave e ceci tostati) costituivano il dessert delle feste di fidanzamento ed anche di nozze. Anche la letteratura popolare siciliana ne ha fatto uso, infatti nelle fiabe nostrane si narra che “lu vecchiu dragu” (l’orco), quando decideva di mangiarsi un bambino, lo faceva prima ingrassare con una dieta a base di “passula e ficu”! Foto: Francesca Minonne – (CC BY-NC-SA 2.0).