I segnali ostili nei confronti degli ebrei di Sicilia c’erano già stati a partire dal 1474. Ed erano stati messaggi terrificanti con assalti alle giudecche, caccia al “giudeo” e perfino stragi: la più grave a Modica (Ragusa) dove si contarono 360 vittime.
Poi arrivò l’editto di Ferdinando il “cattolico”, voluto dall’inquisitore Torquemada, che ordinò la cacciata degli ebrei dalla Sicilia. Venne colpita una comunità di 35 mila persone, costrette a lasciarsi tutto alle spalle, ma grandi furono i danni per l’economia e la società siciliane.
Proprio questo è il tema che Rosa Casa Del Puglia approfondisce nel volume “L’editto di espulsione degli ebrei dalla Sicilia“, Mohicani edizioni.
La cacciata colpiva un popolo pacifico e bene integrato: gli ebrei di Sicilia gestivano fattorie e industrie dello zucchero e del formaggio, lavoravano il corallo, erano provetti artigiani e professionisti, molti erano medici. Rispettavano le leggi, pagavano le tasse e come si legge nei documenti delle autorità locali non praticavano l’usura e non volevano convertire i cristiani.
Le stesse magistrature non avevano trovato eresie e “scandalo nella professione della fede cattolica”. La loro partenza, più volte rinviata, era un doloroso distacco dalla propria storia e dai propri beni e comportava per la Sicilia una perdita molto grave. Per evitare di affrontare il dramma della cacciata molti si affrettarono a convertirsi. Dagli stessi cattolici e dai magistrati partirono richieste per rivedere una decisione così ingiusta. Agli ebrei fu solo riconosciuto il diritto di essere compensati per la cessione dei loro beni e dei loro patrimoni, che intanto avevano perso valore. Tutti quelli che lasciarono la Sicilia furono costretti a pagare non solo le spese di viaggio ma anche una “tassa di uscita” per compensare le perdite dell’erario.