L’inquisizione in Sicilia arrivò per mano di Federico II. Fu introdotta formalmente nel 1224, con la costituzione dell’”Inconsutilem tunicam” e rimase viva e attiva per quasi tutto il XVII secolo.
Dopo le norme sveve che richiedevano a tutti gli eretici e agli Ebrei di versare una tassa al Regno, il Tribunale dell’Inquisizione propriamente detto, venne insediato in Sicilia nel XV secolo, e in particolar modo il 6 ottobre del 1487, per volere di Ferdinando II il Cattolico, che mandò sull’Isola il primo inquisitore della storia di Sicilia, Frate Agostino La Pena, la cui nomina fu approvata da Papa Innocenzo VIII. Gli inquisitori, arrivati direttamente dalla Spagna, si andarono ad affiancare a giudici locali che operavano in maniera meno strutturata e con metodologie meno dure. Il loro potere, superiore a quello dei viceré, era volto a mettere a tacere qualsiasi opinione che andasse contro le necessità di conservazione della fede cattolica in Sicilia. Sotto il suo controllo finirono sobillatori, peccatori, eretici generalmente detti o agitatori, insomma persone che in qualche modo sembravano sovvertire gli ideali o il culto cattolico, ivi compresi individui volti a diffondere credenze, stili di vita e superstizioni.
L'inquisizione siciliana dipendeva dunque direttamente da quella spagnola ed era totalmente autonoma dalla Santa Sede romana. Considerata come una vera e propria struttura di governo, a capo del tribunale siciliano si trovava un inquisitore giunto dalla Spagna, mentre i suoi componenti venivano nominati dai viceré.
I primi a ricoprire il ruolo di giudici furono i Padri Domenicani; il declino del suo potere iniziò nel 1592, quando il viceré Duca d’Alba richiese al re Filippo II il ritiro di tutti i privilegi economici consentiti fino a quel momento, a tutti i membri del Sant’Uffizio e ai loro famigliari. Con decreto regio del 6 marzo 1782, Ferdinando III di Sicilia abolì ufficialmente l’Inquisizione Spagnola.
Palazzo Chiaramonte-Steri, una struttura del XIV secolo sita in piazza Marina a Palermo, era il quartier generale del Tribunale. Nei suoi sotterranei venivano tenuti i prigionieri; le pareti di quei loculi testimoniano ancora oggi, grazie a graffiti elaborati con scritte e disegni, quell’epoca sanguinolenta. Oltre alla città di Palermo, Monreale fu un altro importante avamposto della politica inquisitoria spagnola in Sicilia. Innanzitutto, il suo esteso territorio era eretto da un suo Arcivescovo-Abate e il sistema carcerario era diffuso capillarmente su tutta l’area, distinta tra il ‘carcere dei dammusi’, e l’ospedale di Santa Caterina.
Il ‘carcere dei dammusi’ era un edificio posto a chiusura dell’attuale piazza Duomo. Abbattuto nel 1860 dai “Mille”, ivi si trovavano dei piccoli antri scuri e bassi chiamati appunto dammusi e dammuselli, dal nome delle caratteristiche e tradizionali abitazioni in pietra con volta a botte sormontate da una cupola, che altro non erano che le celle in cui i malcapitati venivano rinchiusi e tenuti incatenati per settimane; oggi di quelle torture si hanno solo alcune testimonianze scritte e si conosce la posizione esatta di uno dei dammusi, sito proprio sotto la piazza del Duomo, di fronte al magnifico portale in bronzo. All’interno del palazzo dell’Arcivescovo di Monreale vennero trovati altri dammuselli, altre piccole stanze prive di luce in cui venivano incarcerati i sospettati; stesso discorso per i sotterranei dell’ospedale di Santa Caterina: recenti rilievi archeologici hanno infatti riportato alla luce i chiari segnali della presenza dei piccoli antri bui e di una scala d’epoca spagnola. Tante sono le testimonianze rinvenute tra le pareti della struttura, che ospitava in modo particolare le donne che avevano commesso o si erano macchiate di reati ‘spirituali’ come l’adulterio, il concubinaggio o il lenocinio.
Autore | Enrica Bartalotta