Il termine mandragora raccoglie sotto la sua definizione tutta una serie di piante appartenenti alla famiglia delle Solanaceae, le cui radici si biforcano in maniera tipica ricordando vagamente una forma umana con tanto di testa, braccia e gambe (e pure di sesso maschile e femminile). È probabilmente questa sua strana vicinanza alle forme umanoidi che in passato l’ha resa protagonista di riti, superstizioni e stranezze soprannaturali.
La mandragora cresce in climi mediterranei, prediligendo zone assolate e terra grassa. In Sicilia la troviamo a Caltanisetta (dove è detta Minnulagrò), Catania (dove è detta Mannaraona e Mandulagròna), a Palermo, Siracusa e Ragusa (dove è conosciuta anche come Pàmpina di Aùna (Modica).
Il nome mandragola probabilmente è di derivazione persiana: mehregiah. A lungo Ippocrate ne parlò nei suoi libri attribuendole virtù afrodisiache, ottime per propiziare una eventuale gravidanza. Persino nella religiosissima Genesi si legge: “Rachele richiese a Lia la radice di mandragora per ottenere la fecondità”.
È soprattutto in epoca medievale che la mandragora era uno dei principali ingredienti per realizzare pozioni e filtri. Inoltre in molte usanze voodoo era usata come surrogato delle famosissime bambole di cera. Sono tantissimi i testi di alchimia che raffigurano la mandragora con le sembianze di un uomo o un bambino: aspetto che le radici della pianta assumono soprattutto in primavera.
Per questo si pensava fosse un ibrido tra il regno animale e quello vegetale, capace di togliere la vita o di trasformare un uomo in una bestia. Nel trattato di Njanaud (1615), ad esempio, si descrive l’uso di un particolare unguento capace di trasformare l’uomo in licantropo.
Perché la pianta possedeva particolari proprietà? La leggenda vuole che la pianta, viste le sue affinità con gli uomini, soffrisse tutte le volte che si estirpavano le sue radici. E proprio per questo si vendicava producendo dei veleni che potevano portare alla pazzia o alla morte. La superstizione era profondamente radicata nell’uomo e trovava terra feconda nella sua ignoranza.
Per sfuggire a eventuali vendette della pianta, infatti, si legavano tra di loro con una corda le radici della pianta da estrarre e un cane dal manto nero, che fosse stato mantenuto a digiuno per il giusto tempo. Poi, guardando la luna e suonando uno zufolo, si mostrava al cane un pezzo di carne perché cominciasse a tirare ed estrarre la radice.
La mandragora è una pianta tossica e non commestibile dato che contiene alcaloidi. Se assunta in determinate quantità, provoca allucinazioni, vomito e problematiche gastrointestinali, tachicardia, pressione alta, convulsioni e, in casi estremi, anche la morte.
Proprietà mediche
Nel 1700 il medico Linneo chiamava la mandragora “Atropa” per via delle sue proprietà velenose. Atropo, infatti, era una delle tre Parche, in particolare era colei che recideva il filo della vita al momento appropriato. Ma al di là della superstizione e della magia la mandragora ha sempre evidenziato delle particolari proprietà anestetiche. Già nel I secolo d.C Dioscoride ne descrive l’impiego come antidolorifico.
Ne si metteva un po’ nel vino e poi si dava da bere ai pazienti nei quali si dovevano praticare delle incisioni. Anche la grande Roma adoperava la mandragora allo stesso modo, forse imparandolo dagli egizi. Per i romani non c’era nulla di meglio per calmare il mal di denti.
La prima ricetta anestetica dettagliata la possiamo leggere grazie ad Arnaldo da Villanova nella sua Opera Omnia. Consisteva nell’applicare sul naso e sulla fronte del paziente un panno umido precedentemente immerso in una miscela acquosa di oppio, mandragora e giusquiamo (presi in parti uguali).
Il paziente cadeva così in un sonno profondo senza che sentisse dolore. In questo modo lo si poteva operare al sicuro. Anche nel Rinascimento la pianta era molto ricercata, benché i dotti dell’epoca ne contestassero la reale efficacia descritta.
Non vi era casa nella quale non ne fosse custodita un po’. La pianta, infatti, doveva assicurare alla famiglia felicità, salute e ricchezza (più un talismano che una medicina). In ogni caso la si continuava a usare per curare l’epilessia e la depressione. Ma anche l’insonnia (commista a rosso d’uovo e latte di donna) o l’incontinenza urinaria, o come antiveleno.
Oggi la scienza ha definitivamente sfatato tutte le proprietà magiche, però ne ha riconosciuto alcuni effetti farmacologici. In particolare sono stati isolati i principi attivi della scopolamina, atropina e josciamina, sostanze ancora oggi usate in farmacologia ufficiale, sebbene lo si faccia in dosi precise.
Di Viola Dante