I Pupi Siciliani sono grandi marionette (dal latino ‘pupus’, ovvero bambinello) in legno ricoperte d’abiti e armatura. Fanno parte del teatro epico popolare che trova probabilmente le sue origini nella Spagna del Don Chisciotte e caratterizzarono l’intrattenimento di fine Ottocento a Napoli, Roma e Sicilia.
L'Opera dei Pupi (in dialetto catanese ‘opira dé pupi’ oppure ‘opr'e pupi’) storicamente nasce come rappresentazione degli scontri medievali tra i Cavalieri e i Mori; ma col tempo, le marionette cavalleresche iniziarono ad assumere un ruolo sociale e culturale, a rappresentare i sentimenti di rivalsa e le aspirazioni di una classe sociale, quella lavoratrice.
Cambia l’uso dei Pupi e cambiano anche i materiali con cui vengono realizzati. Le armature, dapprima in cartone o stagnola, vengono realizzate in metallo cesellato e arricchito da sbalzi e arabeschi; vengono poi cuciti e stirati manti, gonnelle, in stoffe sempre più preziose. Viene anche migliorata la mobilità del Pupo, con due nuovi passanti in ferro che garantiscono una più realistica rappresentazione delle scene, soprattutto per mostrarne al meglio i sentimenti e le emozioni.
L’espressione artistica dell’Opera si deve soprattutto ai cantastorie o ‘cuntastorie’, spesso analfabeta e artista-girovago il primo, soleva raccontare storie e leggende scritte o tramandate dalla tradizione orale; racconti a sfondo epico tratti dalle gesta di Carlo Magno o dalle vicende dell’Orlando, oppure scene e avvenimenti di vita quotidiana, che venivano presentate attraverso il canto. Il cuntastorie invece, prediligeva i racconti a puntate (‘u cuntu’) di argomento epico-cavalleresco, attraverso la declamazione e l’uso della postura. Fu colui che sancì il trasferimento dell’Opera dei Pupi dalle piazze ai teatri.
Un grande apporto allo sviluppo dell’Opera, fu dato da Giusto Lo Dico, maestro elementare, che nel 1858 realizzò un’opera dal titolo: “Storia dei Paladini di Francia”. I quattro volumi rappresentano ancora oggi la ‘Bibbia dei pupari’; l’opera altro non è che una complessa sintesi dei numerosi poemi epici e di gran parte delle storie cavalleresche che facevano parte della tradizione orale. Spesso la recitazione dei maestri pupari era a soggetto; a supporto venivano utilizzati solo degli appunti scritti, che costituivano i punti salienti della trama in rappresentazione.
Gli spettacoli erano spesso di tipo interattivo: il pubblico, composto soprattutto da ragazzi e uomini del ceto popolare, spesso interveniva con invettive e il lancio di alcuni oggetti, per mostrare la propria simpatia o antipatia per l’uno o l’altro personaggio. I racconti raccoglievano il favore del pubblico, anche perché venivano rappresentati con espressioni linguistiche tipiche del gergo popolano. La tradizione prosegue fino intorno agli anni Sessanta, quando il Teatro iniziò ad affrontare la seconda delle sue prime crisi, dovuta all’introduzione del cinema prima (anni Quaranta) e della tivù poi (anni Sessanta). Gli spettacoli dei pupari iniziarono dunque ad assumere una forma più privata, ritirandosi nelle case dei siciliani, i quali, per l’arrivo dell’Era Moderna e del Boom Economico, cominciarono a guardare con ‘sospetto’ una tradizione che ricordava un passato fatto di povertà. Iniziò così a spezzarsi ‘la catena orale’ che caratterizza il grosso dei racconti dei Pupi. Fu solo intorno alla fine degli anni Settanta infatti, che questa tradizione venne ripresa, grazie soprattutto alla spinta data dalla domanda turistica. Nel 2001, l'UNESCO ha deciso di proteggere questo patrimonio artistico-culturale, conferendo al Teatro dei Pupi il titolo di "Capolavoro del patrimonio Orale e Immateriale dell'Umanità", che fu attribuito dunque, per la prima volta, non a statue, non a monumenti, ma ad una tipica espressione della cultura popolare.
Sono due le principali tradizioni techiche di realizzazione dei Pupi. La prima, palermitana, caratterizza la Sicilia occidentale; la seconda, catanese, rappresenta la Sicilia orientale. Nella prima versione, il Pupo ha un’altezza compresa tra gli 80 e i 100 cm e pesa all’incirca 10 chili; ha gambe articolate ed è manovrato di lato. Nella tradizione catanese, il Pupo raggiunge i 140 cm di altezza e i 30 chili di peso, è meno dinamico ed è mosso dall’alto, in un punto rialzato rispetto alla scena.
Il Puparo è l'artista-artigiano. Alle sue dipendenze lavorano almeno due aiutanti-apprendisti e collaboravano altre figure quali il fabbro-ferraio (per la realizzazione delle armature), il pittore (per la realizzazione dei cartelloni e per la decorazione della messinscena) e lo scrittore di dispense (da cui trarre i copioni per le storie).
Ogni puparo ha i suoi trucchi, le sue tecniche di lavorazione, ed un proprio repertorio, spesso personalizzato, di espressioni e battute. Essere un buon puparo non significa solo essere un bravo artigiano, ma anche un bravo attore, visto che è anche il responsabile dei movimenti dei Pupi e delle loro voci.
La struttura di base del pupo è costituita da tre elementi fondamentali: legno, metallo e stoffa. Il legno scelto è spesso quello di faggio o abete, mentre per la testa veniva privilegiato il faggio o cipresso, perché più duttile. La mano destra viene realizzata con il pugno chiuso, perché è quella che tiene la spada, mentre la sinistra è aperta perché regge lo scudo. Il metallo è invece l’elemento principale delle giunture alle ginocchia (nella versione palermitana) e alle gambe, presso il busto; un’altra asta in metallo viene collocata in testa e serve a sorreggere il pupo, un’altra ancora regge la mano destra. Il piede destro viene accartocciato di mezzo centimetro per facilitare il primo passo e tenere il Pupo stabile.
Una volta realizzate le parti, si passa ad intagliare e dipingere la testa, prestando attenzione alle diverse modalità espressive, secondo le esigenze del copione.
La lavorazione più impegnativa è certamente quella dell’armatura, che deve essere sbalzata, decorata, bombata, sagomata utilizzando diversi arnesi, e seguendo sempre le indicazioni dei copioni.
Le armature vengono realizzate in rame, ottone e alpacca (una lega composta da rame al 50%, nichel al 20% e zinco al 30%), mentre in stoffa si trovano le parti che uniscono gli avambracci e le braccia al busto, e le gambe. Alle coperture in stoffa, viene fatta seguire l’impagliatura, una fase in cui il busto viene imbottito con paglia e tela di iuta, per dare al corpo volume e rotondità.
L’immagine del Pupo non è casuale; può essere abbellita dalla creatività dell’artigiano, ma segue comunque canoni prestabiliti, anche nel colore, legati al personaggio e alla sua iconografia; ad esempio i pantaloni alla zuava appartengono ai Pagani, la faroncina (gonnellina corta), calze lunghe a coscia, e berretti schiacciati sono per i Paladini, una tunica, uno scudo rotondo, una lancia e un turbante aiutano a riconoscere i Mori.
Dopo averlo vestito e lucidato, il Pupo viene assemblato.
Nel catanese, il primo puparo fu Gaetano Crimi, nel 1835. Ricordiamo inoltre don Gaetano Napoli, che nel 1921, a Catania, aprì il suo primo teatro, dando inizio a una tradizione familiare che vive ancora oggi. A Randazzo, vicino Catania, si trova il Museo Civico Vagliasindi, dov’è esposta una vasta collezione di 37 Pupi, realizzati tra il 1912 e il 1915, e usati ancora oggi dal messinese Ninì Calabrese. Tra i pupari ancora in attività di Palermo, ricordiamo Enzo Mancuso e Mimmo Cuticchio. In città è anche possibile ammirare, presso il Museo Internazionale delle Marionette Antonio Pasqualino e il Museo Etnografico Siciliano Giuseppe Pitrè, la più ricca collezione di Pupi. A Siracusa, la tradizione dei Pupi viene portata avanti dai Vaccaro-Mauceri che presero il posto dello storico puparo Francesco Puzzo; mentre a Messina è ancora florida la famiglia Gargano.
Autore | Enrica Bartalotta