SOMMARIO
– INTRODUZIONE
– I RAPPORTI TRA MITO E FIABA
– LA NARADA: LA DONNA –ASINA E IL SUO ARCHETIPO MITICO
– COLA PESCE: L’UOMO-PESCE E IL SUO ARCHETIPO MITICO
– CONCLUSIONI
– BIBLIOGRAFIA
Il saggio di seguito riportato nasce dalla felice convergenza di personali interessi di ricerca archeologica e percorsi folklorici esplorativi da me condotti e sperimentati nell’ambito della gestazione e stesura del mio libro L’ultima dimora del Re . Una millenaria narrazione siciliana “svela” la tomba di Minosse – Fara Editore.
In particolare, quanto qui illustrato è il frutto di un’esperienza di ricerca realizzata in seno ad uno studio sulla fiaba finalizzato all’approfondimento di tale genere narrativo attraverso i variegati rapporti che questo, sin dalle sue origini, ha intessuto con il mito e con l’epos.
Questo lavoro si configura, pertanto, come un modello esemplificativo di approccio al prodotto fiabistico, imperniato eminentemente sull’analisi tematico-comparativa condotta su testi fiabistici e mitico – leggendari.
Una simile impostazione di ricerca ha consentito di testimoniare, attraverso la logica del confronto e il rinvenimento di analogie e affinità tematiche, l’evoluzione di particolari episodi o personaggi mitico-epici e la loro trasformazione nel tempo in paralleli prodotti fiabistici e folcloristici.
RAPPORTI TRA MITO E FIABA
È acquisizione ormai certa e incontrovertibile quella che riconosce nella narrativa fiabistica la conservazione caparbia e tenace degli elementi più arcaici della tradizione orale e anche letteraria di un popolo. A tal titolo si ricordino episodi e personaggi di fiabe di diversa epoca e anche latitudine del nostro pianeta che si ricollegano a motivi e temi delle antiche mitologie e tradizioni epiche. Sempre a tal riguardo non vanno sottaciuti gli studi condotti sull’ argomento da Theodor G. Gaster che è riuscito a dimostrare sicuri rapporti tra racconti mitologici degli Assiri, Babilonesi, Hittiti, risalenti ad alcuni millenni avanti Cristo, e la narrativa popolare tuttora viva nella tradizione orale di questi luoghi. Simili risultati, rigorosamente scientifici, sono venuti a consolidare la teoria romantica, sostenuta dai Fratelli Grimm e dai loro seguaci, che vedeva nelle fiabe frammenti e relitti di miti antichissimi, con i quali i popoli primitivi interpretavano simbolicamente i principali fenomeni della natura. Sulle origini delle fiabe sono state formulate tuttavia altre teorie. Alcuni valenti studiosi come l’insigne etnologo Vladimir Propp vi riconoscono non tanto i miti, quanto i riti; come ad esempio per le prove che il giovane eroe del racconto deve superare, sono stati chiamati a confronto i riti d’iniziazione e di passaggio, che caratterizzano il ciclo della vita umana delle città primitive dei diversi continenti. Infine, la scuola Freudiana fa derivare le fiabe dai sogni e altri fenomeni del subcosciente. Comunque sia, si devono riconoscere nella narrativa fiabistica altissime testimonianze di valore storico, religioso e culturale. Un fenomeno analogo a quello della “storicizzazione” delle fiabe è quello della loro diffusione e assimilazione in senso geografico e linguistico, in virtù delle quali diversi motivi e temi della narrativa popolare si selezionano e si ambientano assumendo una lingua e uno stile diverso da regione a regione, sì che in questo modo si può, a ragion veduta, parlare di fiabe siciliane o toscane o lombarde anche se i motivi ed i temi si trovano talvolta diffusi su aree vastissime. È solo nella seconda metà dell’Ottocento che la novellistica popolare viene in Italia raccolta con fedeltà dalla viva voce delle favolatrici e pubblicata in chiara coscienza da una documentazione di carattere scientifico.
Il patrimonio più ricco è offerto, appunto, dalle raccolte della Sicilia e dell’Italia meridionale per opera di valenti etnologi e e studiosi del folclore come G. Pitrè, V. Imbriani e L. Di Francia.
Ecco quindi che, in sintonia con lo spirito di queste premesse, il presente lavoro vuole testimoniare la diretta filiazione e mutuazione genetica di talune leggende e racconti di metamorfosi, diffusi nell’area del Messinese e del Reggino dal multiforme repertorio mitico-letterario del mondo egeo-cretese.
L’esame dettagliato di tali leggende e racconti nelle loro molteplici versioni, alla luce dell’analisi filologico-etnografica di taglio comparativo eseguita, sembrerebbe difatti confortare l’ipotesi di un nesso profondo intercorrente tra questi prodotti popolari e talune fonti classiche riferibili al vasto patrimonio mitico e folkloristico minoico.
Tale ricerca trae, difatti, la sua occasione generativa dalla scoperta nelle storie di Narade nell’area grecanica del Reggino di precisi riecheggiamenti della commedia aristofanesca e del folklore cretese e dal rinvenimento all’interno della celeberrima storia siciliana di Cola Pesce di alcuni echi di nuclei tematici della produzione poetica di Bacchilide ed Ovidio.
In particolare, le fonti classiche sopra citate, costituirebbero, a mio modo di vedere, i rispettivi exempla e archetipi tematici delle testimonianze fiabistiche oggetto di indagine.
Ma veniamo di seguito ad illustrare la storia della Narada e quella di Colapesce
LA NARADA: LA DONNA-ASINA E IL SUO ARCHETIPO MITICO
In occasione di un viaggio compiuto nell’area grecanica del Reggino, splendida “Isola alloglotta” della nostra penisola, ho avuto modo di raccogliere preziose informazioni sulle credenze, superstizioni e racconti favolistici del luogo.
Tra quest’ultimi si segnala, per la sua matrice e connotazione arcaica, quello relativo alla Narada, mostro dalle sembianze tra donna e quadrupede (asina o capra), che, secondo la fantasia popolare, si mimetizza per apparire più bella ed è incline a compiere atroci malvagità, come rapimenti e atti di cannibalismo.
Il racconto della Narada, essere maligno, perfido, furbo e antropofago, si tramanda in queste terre da secoli, narrato in famiglia da innumerevoli generazioni che si succedono sugli scanni attorno ai focolari domestici dai ceppi accesi.
Di essa a tutt’oggi si racconta che viva nascosta nei costoni delle montagne e si accosti a individui improvvidi e indifesi nelle ore che vanno dal tramonto al mattino fino al canto del gallo.
Con modi suadenti e lusinghieri tende, presso le fontane o nelle vie deserte dei paesi agli angoli delle case, rovinose imboscate a vittime ingenue e inconsapevoli.
Il suo aspetto esteriore è prevalentemente quello di una donna bellissima e affascinante.
L’unico aspetto negativo è la sua malvagità interiore nella quale si rispecchiano degnamente i suoi piedi d’asina, che atterriscono coloro i quali, imbattutisi in lei, posano fortuitamente lo sguardo sulle sue parti anatomiche animalesche.
La Narada grecanica |
Ed ecco in grecanico una novella di Narade:
LI CUMMARI
Mi ‘a vradìa, mi ‘a naràda èghiavi schè mmia yinèca ce tu s’ipe: – cummàre purrò, elàte na plinome?
Cine ynèca ti ipe, manè. Ti imburrì i nnaràda èiavi sìmero ce tise ècrasce. Eghieròtissa ismìa me ta rùga, ce me to vrastàri.
Sa n’arrivespai sto Pizzipirùni, i yinèca ìvro ti i nnaràda èghi ta pòdia a sce gadàra. Tòtò àgronnie tuto, ti nnàrada èghi ta pòdia scè gadara, ti s’ìpe:
· Cummaàre, aminàte ce avlèstemu ta rùga ce to vrastàri, na pao sto spìti, iàti mu èmene ti zicchinia tum cumpàresse.
I nnaràda epìstesse, ce stàdi, ma yinèca de ne condòferre plèo, sa n’ècame impera ce in nnàrada ìvre ti yinèca ene condòferre, ti se anàscie ta màglia ce ti s’èpianne ta vrastàri me to lithàri.
Da una rapida ricognizione condotta su figure similari a quella della Narada esistenti nel patrimonio mitico-letterario e di tradizioni popolari ellenico, emerge con chiarezza un forte parallelismo figurale con il personaggio mitico di Empusa di memoria aristofanesca e con la Neraida del folclore cretese.
In particolare la Narada grecanica richiama fortemente la figura di Empusa, spettro del seguito di Ecate, dea dei crocicchi e delle strade, che, legata al regno dei morti e agli incantesimi, aveva la prerogativa di cambiare repentinamente aspetto.
Prendeva spesso le sembianze di una donna bellissima per attirare gli uomini ai quali succhiava il sangue e aveva una gamba di bronzo e una di letame, dice Aristofane (Rane 285-307):
… Mostri avrei piacere di incontrare qualcuno e avere un’avventura che valga la pena di questo viaggio.
XANTIA: Bravo! Sttt… sento un rumore…
DIONISO: Dove?
XANTIA: Di dietro.
DIONISO: Passa di dietro.
XANTIA: No, davanti.
DIONISO: Passa davanti.
XANTIA: Per dio, ecco un mostro gigantesco.
DIONISO: Com’è?
XANTIA: Tremendo; e prende tutte le forme, ora bue, ora mulo, ora donna bellissima
DIONISO: Dov’è, che mi ci fiondo?
XANTIA: Ma già non è più donna, è un cane.
DIONISO: Allora è l’Empusa!
XANTIA: In effetti ha tutto il viso in fiamme.
DIONISO: E una gamba di bronzo?
XANTIA: E l’altra di escrementi.
DIONISO: Dove posso scappare?
XANTIA: E io?
DIONISO: (al sacerdote di Dioniso, seduto tra gli spettatori in prima fila) Sacerdote, salvami, e poi ti pago da bere!
XANTIA: Eracle, signore, siamo perduti.
DIONISO: Non chiamarmi con quel nome!
XANTIA: Dioniso, allora.
DIONISO: Men che meno. “…”
Forse Empusa deriva il nome da empìno (bere-tracannare) oppure da empàizo, katempàzo (illudere-sorprendere).
Figura speculare alla Narada grecanica, diffusissima nel folclore cretese, è quella dell’incantatrice, la maga, la strega che frequenta le sorgenti e le caverne di Creta, con i nomi attuali di Narada, Neragda o Aneraida.
Tuttora a Creta, come ben testimonia lo studioso Paul Faure [1] si ritiene che le Neraide siano demoni terribili sotto le spoglie di giovani e graziose ragazze, di danzatrici e cantatrici straordinarie e che si incontrano soprattutto la notte nelle vicinanze di luoghi umidi. Esse attirano i giovani nella loro ridda circolare e ne fanno degli invasati.
Il loro nome è sempre considerato come derivato dalla parola “neto” (l’acqua), senza, però, ritenerle divinità del mare.
Vi sono centinaia di racconti annotati sulle Nereidi da P. Faure e da altri folcloristi a Creta dal 1945 fino ai giorni nostri.
Secondo alcuni esse rapiscono i bambini e fanno morire gli uomini attirati fino alle sorgenti delle loro caverne.
Secondo altri danzano sul sentiero vicino alla loro grotta, alla sorgente del fiume: trascinano gli uomini nel loro girotondo facendoli assistere alla loro metamorfosi beluine e, dopo averli privati della voce e dalla virilità, spariscono col canto del gallo.
Dall’analisi delle ricerche compiute da tali eminenti folcloristi risulta che il popolo cretese dei giorni nostri si immagina la Naraida come una creatura a tra la ninfa e l’asina, amante della musica e della danza ma, nello stesso tempo, rapitrice di anime e di bambini.
[1] P. Faure, Fonctions des cavernes cretoises, Parigi 1964 (pp. 229-232)
P. Faure, Ulisse il cretese, Roma 1985 (pp. 55-59)
COLA PESCE: L’UOMO-PESCE E IL SUO ARCHETIPO MITICO
Molto diffusa in tutto il Mediterraneo, specie quello occidentale, è la fiaba-leggenda dell ‘uomo-pesce.
La tradizione orale riferisce, appunto, di un personaggio che, a seconda delle diverse versioni, si presenta ora come essere mitico con connotazioni fisiche fra l’uomo e il pesce, ora come figura umana che per la sua abilità di nuotare e di sprofondare negli abissi marini viene soprannominato “pesce”.
Quest’ultimo è il caso della famosa leggenda di Colapesce che ha destato l’interesse di diversi studiosi italiani fra cui lo stesso Benedetto Croce [1].
Una delle tante lezioni di tale popolare e indigena leggenda siciliana dalle molteplici varianti [2], per i più databile ai tempi di Federico II di Svevia, ma forse ancora più antica come fra poco vedremo, narra di un giovane chiamato Nicola che amava vivere con i pesci ed era un valente e assiduo esploratore del mare.
Le sue inaudite imprese sottomarine richiamarono l’attenzione del sovrano che, a seconda delle versioni, è Federico imperatore o Guglielmo o Ruggero o altri ancora, il quale per mettere alla prova la bravura di Cola, gettò in mare un anello. Cola lo ripescò , ma il re volle ripetere la prova per ben tre volte a alla terza l’uomo-pesce non fece più ritorno dagli abissi marini.
Secondo un antico testo “… fu la sua destrezza e forza nell’acqua tale, che ancora che fosse gran tempesta in mare, egli lo nuotava senza timore…”. Ma è in particolar modo la sua fine che dà al racconto una suggestione poetica e leggendaria: “… essendo adunque costui tenuto in pregio dai cittadini di Messina e riguardato come un miracolo egli in un certo giorno solenne, in presenza di un grandissimo popolo aiutò a ripescare un tazza d’oro, che aveva gettato in mare Federico re di Sicilia, il quale avea comandato a questo Cola che andasse per essa. E avendola egli presa due volte, la terza volta che il re la gettò egli si tuffò per riaverla e non ritornò mai più su, benché fosse aspettato dal re e dal popolo gran pezza invano…”.
Insieme alla sopra citata testimonianza va ricordato che la prima menzione letteraria della leggenda si rinviene in un poeta provenzale del XII secolo d.C., Raimond Jordan.
Fra i successivi chiosatori e cantori della storia si annoverano Fra Salimbene, Gioviano Pontano, Athanasio Kircher, Francesco Pipino, Friederich Schiller, Giuseppe Pitrè, Italo Calvino, Ignazio Buttitta, Dario Bellezza e diversi cantastorie siciliani.
Gioviano Pontano in Urania ne fece una narrazione in versi latini. Il poeta F. Schiller rivisita la storia di Colapesce nella ballata Der Taucher. In tale componimento Colapesce muore per volere riportare ancora una volta alla superficie la coppa preziosa che il suo re per sfida e capriccio, si ostinava a ributtare in mare, con la promessa che avrebbe concesso in sposa la figlia a chi l’avesse recuperata.
Un ricco repertorio di versioni letterarie nella storia di Colapesce si trova poi nell’opera di G. Pitrè, Studi di leggenda popolari in Sicilia e nuova raccolta di leggende siciliane.
La più bella delle diciassette versioni popolari siciliane della famosa leggenda di Colapesce, pubblicata dal Pitrè, Lu Piscicola raccontata da un marinaio della contrada “Vergine Maria”, ai piedi del monte Pellegrino (PA), venne in seguito raccolta da Italo Calvino e inserita in Fiabe Italiane [3].
La riportiamo per esteso:
Una volta a Messina c’era una madre che aveva un figlio a nome Cola, che se ne stava a bagno nel mare mattina e sera. La madre a chiamarlo dalla riva:
– Cola! Cola! Vieni a terra, che fai? Non sei mica un pesce?
E lui, a nuotare sempre più lontano. Alla povera madre veniva il torcibudella, a furia di gridare. Un giorno, la fece gridare tanto che la poveretta, quando non ne poté più di gridare, gli mandò una maledizione:
– Cola! Che tu possa diventare un pesce!
Si vede che quel giorno le porte del Cielo erano aperte, e la maledizione della madre andò a segno: in un momento, Cola diventò mezzo uomo mezzo pesce, con le dita palmate come un’anatra e la gola da rana. In terra Cola non ci tornò più e la madre se ne disperò tanto che dopo poco tempo morì.
La voce che nel mare di Messina c’era uno mezzo uomo e mezzo pesce arrivò fino al Re; e il Re ordinò a tutti i marinai che chi vedeva Cola Pesce gli dicesse che il Re gli voleva parlare.
Un giorno, un marinaio, andando in barca al largo, se lo vide passare vicino nuotando.
– Cola! – gli disse. – C’è il Re di Messina che ti vuole parlare!
E Cola Pesce subito nuotò verso il palazzo del Re.
Il Re, al vederlo, gli fece buon viso.
– Cola Pesce, – gli disse, – tu che sei così bravo nuotatore, dovresti fare un giro tutt’intorno alla Sicilia, e sapermi dire dov’è il mare più fondo e cosa ci si vede!
Cola Pesce ubbidì e si mise a nuotare tutt’intorno alla Sicilia.
Dopo un poco di tempo fu di ritorno. Raccontò che in fondo al mare aveva visto montagne, valli, caverne e pesci di tutte le specie, ma aveva avuto paura solo passando dal Faro, perché lì non era riuscito a trovare il fondo.
– E allora Messina su cos’è fabbricata? – chiese il Re. – Devi scendere giù a vedere dove poggia.
Cola si tuffò e stette sott’acqua un giorno intero. Poi ritornò a galla e disse al Re:
– Messina è fabbricata su uno scoglio, e questo scoglio poggia su tre colonne: una sana, una scheggiata e una rotta.
O Messina, Messina,
Un dì sarai meschina!
Il Re restò assai stupito, e volle portarsi Cola Pesce a Napoli per vedere il fondo dei vulcani. Cola scese giù e poi raccontò che aveva trovato prima l’acqua fredda, poi l’acqua calda e in certi punti c’erano anche sorgenti d’acqua dolce.
Il Re non ci voleva credere e allora Cola si fece dare due bottiglie e gliene andò a riempire una d’acqua calda e una d’acqua dolce. Ma il Re aveva quel pensiero che non gli dava pace, che al Capo del Faro il mare era senza fondo. Riportò Cola Pesce a Messina e gli disse:
– Cola, devi dirmi quant’è profondo il mare qui al Faro, più o meno.
Cola calò giù e ci stette due giorni, e quando tornò sù disse che il fondo non l’aveva visto, perché c’era una colonna di fumo che usciva da sotto uno scoglio e intorbidava l’acqua. Il Re, che non ne poteva più dalla curiosità, disse:
– Gettati dalla cima della Torre del Faro
La Torre era proprio sulla punta del capo e nei tempi andati ci stava uno di guardia, e quando c’era la corrente che tirava suonava una tromba e issava una bandiera per avvisare i bastimenti che passassero al largo. Cola Pesce si tuffò da lassù in cima.
Il Re ne aspettò due, ne aspettò tre, ma Cola non si rivedeva. Finalmente venne fuori, ma era pallido.
– Che c’è, Cola? – chiese il Re.
– C’è che sono morto di spavento, – disse Cola. – Ho visto un pesce, che solo nella bocca poteva entrarci intero un bastimento! Per non farmi inghiottire m son dovuto nascondere dietro una delle tre colonne che reggono Messina!
Il Re stette a sentire a bocca aperta; ma quella maledetta curiosità di sapere quant’era profondo il Faro non gli era passata.
E Cola:
– No, Maestà, non mi tuffo più, ho paura.
Visto che non riusciva a convincerlo, il re si levò la corona dal capo, tutta piena di pietre preziose, che abbagliavano lo sguardo, e la buttò in mare.
– Va' a prenderla, Cola!
– Cos’avete fatto, Maestà? La corona del Regno!
– Una corona che non ce n’è altra al mondo, – disse il Re. – Cola, devi andarla a prendere!
– Se voi così volete, Maestà, – disse Cola – scenderò. Ma il cuore mi dice che non tornerò più su. Datemi una manciata di lenticchie. Se scampo, tornerò su io; ma se vedete venire a galla le lenticchie, è segno che io non torno più.
Gli diedero le lenticchie, e Cola scese in mare.
Aspetta, aspetta; dopo tanto aspettare, vennero a galla le lenticchie.
Cola Pesce s’aspetta che ancora torni.
[1] Benedetto Croce, La leggenda di Niccolò Pesce in “Giambattista Basile”, 1885 n.7, Napoli.
[2] Si ricordi a tal titolo, che in Spagna, ad esempio, i vecchi pescatori della costa narrano ancora di un “pesce Niccolò” nato nel villaggio marinaro di Rota presso Cadice e che Cervantes nel Don Chischiotte (episodio in cui il cavaliere si ritrova nella dimora di Don Diego Dal Verde Gabbano) sostiene che egli vive ancora.
[3] Italo Calvino, Fiabe Italiane, Einaudi, Torino 1957
Renato Guttuso, Mito di Colapesce (1985), Teatro Vittorio Emanuele di Messina |
In Colapesce di Ignazio Buttitta, indimenticabile poeta dialettale siciliano, è degna di particolare attenzione la scena in cui Ninfa, la fanciulla incinta di Colapesce, si scaglia contro il suo amato con dolorosa furia insultandolo e supplicandolo:Vinisti pi scipparmi l’arma e iu ti cridia n’angilu, un santu, un patri, n’amanti: un galofaru ti cridia! (trad. “Sei venuto per strapparmi l’anima, io ti credevo un angelo, un santo, un padre, un amante: un garofano ti credevo!”).
Segue la celebre versione da cantastorie della storia di Colapesce :
La genti lu chiamava Colapisci
pirchì stava 'nto mari comu 'npisci
dunni vinia non lu sapia nissunu
fors' era figghiu di lu Diu Nittunu.
'Ngnornu a Cola u re fici chiamari
e Cola di lu mari curri e veni.
O Cola lu me regnu a scandagghiari
supra cchi pidamentu si susteni
Colapisci curri e và.
Vaiu e tornu maestà.
Cussì si jetta a mari Colapisci
e sutta l'unni subitu sparisci
ma dopu 'npocu, chistà novità
a lu rignanti Colapisci dà.
Maestà li terri vostri
stannu supra a tri pilastri
e lu fattu assai trimennu,
unu già si stà rumpennu.
O destinu miu infelici
chi sventura mi predici.
Chianci u re, com'haiu a fari
sulu tu mi poi sarvari.
Su passati tanti jorna
Colapisci non ritorna
e l'aspettunu a marina
lu rignanti e la rigina.
Poi si senti la sò vuci
di lu mari 'nsuperfici.
Maestà! ccà sugnu, ccà
Maestà ccà sugnu ccà.
'nta lu funnu di lu mari
ca non pozzu cchiù turnari
vui priati la Madonna
ca riggissi stà culonna
ca sinnò si spezzerà
e la Sicilia sparirà.
Su passati tanti anni
Colapisci è sempri ddà
Maestà! Maestà!
Colapisci è sempri ddà
Si richiama a tale titolo la pregevole versione cantata da Otello Profazio (1966)
Analizzando le figure dei diversi personaggi mitici del patrimonio letterario ellenico si può riscontrare una certa somiglianza fra il personaggio mitico di Teseo, eroe greco nato a Trezene e figlio del re ateniese Egeo, e quello fiabesco di Colapesce, i cui caratteri sono già stati illustrati in precedenza.
In particolare la vicenda occorsa a Teseo e che richiama quella di Colapesce è narrata nel XVII ditirambo del lirico greco Bacchilide.
Egli nacque a Ceo nel 520 a.C. e vi morì nel 450 a.C. Poco si sa della sua vita: nipote di SImonide (altro lirico greco, gran maestro del ditirambo), seguì probabilmente le orme dello zio negli spostamenti presso le varie corti e città.
Si narra che ci sia stata una rivalità tra il poeta e Pindaro, famoso lirico greco, testimoniata anche nelle loro stesse opere.
L’episodio mitico di Teseo che ha attirato prepotentemente la mia attenzione fa parte de “I giovani”, XVII ditirambo di Bacchilide.
In esso Teseo, figlio di Poseidon, accompagna a Creta il triste tributo di sette giovani e di sette vergini da sacrificare al Minotauro; dinanzi a Minosse vanta la sua discendenza da Poseidon e il re cretese, per mettere alla prova le sue affermazioni, lo sfida a recuperare un anello d’oro da questi gettato in mare.
Teseo riesce nell’impresa e riemerge dai flutti fra le grida gioiose delle fanciulle e i canti di vittoria dei giovani.
Ecco di seguito riportato il passo di Bacchilide nella traduzione del mio compianto e indimenticabile professore di Letteratura greca, Dario Del Corno:
e disse “Potente Zeus
padre, ascolta: se a te la sposa
fenicia dalle candide braccia mi generò,
ora manda dal cielo veemente
il fulmine con la sua criniera di fuoco,
certissimo segno; e se tu, Teseo,
nascesti a Poseidon signore dei terremoti
da Etra di Trezene,
quest’aureo fulgente
ornamento della mano
riporta dagli abissi del mare,
calandoti arditamente nella casa di tuo padre.
Vedrai se il Cronide
ascolta la mia preghiera,
il signore del mondo che regna sul tuono.”
Udì l’irreprensibile voto Zeus onnipotente,
e suscitò a Minosse onore
sublime, che tutti riconoscessero
al figlio amato;
e scagliò il fulmine. Ed egli vedendo
il prodigio ambito dall’animo tese la mano
verso il cielo radioso, l’eroe forte nelle battaglie,
e disse: “Teseo, questo dono
di Zeus tu vedi, che è chiaro:
lanciati dunque nel mare,
tra le onde che fremono: il padre
Cronide, Poseidon signore, ti compirà
gloria eccelsa
sulla terra feconda di alberi.”
Così disse: ed a lui non si piegò
l’animo, ma salito sul fianco
solido della nave
si tuffò, e lo accolse
propizio la foresta del mare.
Restò attonito nel profondo del cuore il figlio
di Zeus, e diede ordine di affidare
al vento la nave robusta:
ma altro percorso compiva il destino.
Correva la nave veloce, sospinta
dal soffio robusto di Borea.
Tremarono i giovani –
Di Atene, allorchè l’eroe
si fu lanciato nel mare,
e dagli occhi di giglio versavano
pianto, aspettando la sorte crudele;
ma i delfini abitanti dei flutti
rapidamente portarono il grande Teseo
alla casa del padre, dio dei cavalli,
ed egli entrò nella sala
dove stanno gli dèi. Timore lo prese
al vedere le Ninfe, figlie
di Nereo signore: poiché dagli splendidi
corpi riluceva un fulgore
come di fiamma, e intorno alle chiome
fluttuavano bende
intrecciate d’oro; e danzando con agili
piedi allietavano il cuore.
E vide la cara sposa del padre,
la veneranda Anfitrite dagli occhi fondi
nella dimora mirabile.
Essa lo avvolse in un manto di porpora,
e pose sulle chiome ricciute
una corona stupenda,
fitta di rose, che allora nel giorno di nozze
le diede Afrodite, la dea che ammalia d’amore.
Nulla che vogliano gli dèi
è incredibile agli uomini che usano ragione!
Presso la nave veloce apparve: ah,
in quale sgomento precipitò
il guerriero di Cnosso, allorchè
sorse asciutto dal mare,
stupore per tutti, e a lui lucevano
intorno alle membra i doni divini,
e le vergini dai fulgidi troni
di nuova allegrezza
lanciarono un grido, ed echeggiò
il mare! E di risposta i giovani compagni
cantarono il peana con limpida voce.
Signore di Delo, ai cori di Ceo
gioisci nel cuore,
e assegna sorte divina di nobili eventi.
(trad. di Dario Del Corno)
Un riflesso della fiabesca spedizione di Teseo sul fondo del mare e del suo prodigioso recupero dell’anello ivi gettato dal re Minosse si trova altresì nel “cratere” del Pittore di Siriscos proveniente da Agrigento e conservato al Cabinet Des Medailles di Parigi.
Una eco di tale impresa eroica si rinviene anche nel fregio pittorico del Theseion di Atene, opera di Micone, oggi andata perduta, di cui fa menzione lo scrittore- periegeta Pausania.
Nell’episodio di Teseo riferitoci da Bacchilide credo giustamente di aver rinvenuto l’archetipo mitico della storia di Colapesce, date la concordanza e le affinità tematiche rilevate e di seguito elencate: una prima affinità è la prova che i due eroi devono superare. Nelle diverse versioni della storia di Colapesce, infatti, il ragazzo deve recuperare un oggetto prezioso gettato in mare dal re; nella più antica l’oggetto è un anello, lo stesso che deve recuperare Teseo per dimostrare a Minosse che suo padre è il re del mare, Poseidon.
Un altro elemento in comune è l’assistenza prestata dai delfini ai protagonisti: questi animali aiutano gli eroi a superare la prova; essi rappresentano l’appartenenza al mare dei due personaggi.
Un’altra presenza comune alle due leggende è quella della principessa che si innamora del protagonista: difatti nella leggenda di Teseo la principessa è Arianna, figlia di Minosse, e spesso anche in quella di Colapesce c’è la figura della figlia del re dal nome quasi mai specificato.
Un’altra caratteristica comune è la discendenza di Teseo da Poseidon e di Colapesce da Nettuno secondo quanto testimoniato nelle versione orale di taluni cantastorie siciliani (“Forsi era figghiu dillu diu Nettuno”).
Da tutte queste concordanze si può dedurre che la storia di Colapesce abbia origini da un mito preellenico, per l’appunto cretese, che poi si è largamente diffuso in Sicilia durante il periodo della seconda colonizzazione greca.
Infatti in quell’epoca si diffusero ampiamente in Sicilia dei racconti portati in quella regione dai primi coloni minoico-micenei che avrebbero narrato, ognuno a suo modo, la vicenda mitica di Teseo.
Questa, come ho cercato di dimostrare, potrebbe quindi costituire l’archetipo mitico della leggenda di Colapesce sviluppatasi nei secoli, con numerose varianti, dal ditirambo di Bacchilide.
Una ulteriore eco tematica della storia di Colapesce, che conforterebbe ancor di più la tesi da me sostenuta di una derivazione di essa dal mito classico ,sarebbe rinvenibile nella Metamorfosi di Ovidio.
Nel XIII libro delle Metamorfosi, difatti, il poeta latino Ovidio narra la storia di Glauco, pescatore di Antedone in Beozia, che da mortale, per il suo smisurato amore per il mare, divenne un dio dell’acqua dalle fattezze a metà tra uomo e pesce. Innamoratosi di Scilla, fu da questa respinto.
Ecco di seguito riportata la fonte ovidiana:
Galatea aveva finito il suo racconto. Le Nereidi,
sciolto il convegno, si allontanano nuotando nelle onde tranquille.
Se ne va anche Scilla, ma non osando avventurarsi in mare aperto,
vaga senza vesti addosso sulla spiaggia assolata
e alla fine, ormai stanca, trovata una caletta appartata,
si rinfresca le membra nell'acqua che lì ristagna.
Ed ecco che fendendo i flutti, arriva Glauco che, mutate
le membra ad Antèdone in faccia all'Eubea, solo da poco viveva
nell'oceano; vede la vergine e per il desiderio si arresta,
le rivolge tutte le frasi che pensa possano trattenerla.
Ma lei, resa veloce dal timore, fugge, fugge
e raggiunge la cima di un monte che sorge vicino alla spiaggia.
È una grande altura che, salendo con un lungo pendio dall'acqua
verso il cielo, culmina in un'unica punta di fronte al mare.
Qui lei si ferma e, da quel luogo sicuro, indecisa se quell'essere
sia un mostro oppure un dio, ne guarda stupita il colore,
i capelli che gli coprono le spalle giù sino al dorso
e si meraviglia che dall'inguine si affusoli come un pesce.
Glauco se ne accorge e, aggrappandosi a uno scoglio lì vicino:
“Non sono un mostro, vergine, né una belva feroce,
ma un dio dell'acqua” dice. “E di me non hanno sul mare
più potere Pròteo, Tritone o Palèmone, il figlio di Atamante.
Prima però ero un mortale, ma a dire il vero già allora
il mondo mio era il mare profondo e già allora lo dominavo.
A volte trascinavo reti ricolme di pesci,
altre, seduto su uno scoglio, pescavo con canna e lenza.
Al margine di un prato verde c'è una spiaggia:
su questa si riversa il mare, il prato è coperto di un'erba
che nessuna giovenca selvatica ha mai violato coi suoi morsi,
che voi, placide pecore o irsute caprette, avete mai brucato.
Mai lì, col loro zelo, le api colsero dai fiori il polline,
mai lì si son fatte ghirlande per le feste, mai una mano armata
di falce vi è passata. Io fui il primo a sedermi
su quelle zolle, mentre facevo asciugare le reti bagnate,
e per contarli in bell'ordine sopra vi disposi
i pesci catturati, quelli che il caso aveva sospinto
nelle reti o la loro ingenuità sugli ami adunchi.
Parrebbe un'invenzione, ma inventare che mi gioverebbe?
a contatto con l'erba, la mia preda cominciò ad agitarsi,
a mutar lato e a guizzare sulla terra come fosse nell'acqua.
E mentre trasecolo impietrito, l'intero branco
si rituffa nel mare abbandonando la spiaggia e il nuovo padrone.
Rimango attonito, a lungo in dubbio e cerco la causa:
se opera sia stata di un nume o del succo di un'erba.
'Ma quale erba può avere questo potere?' mi dico, e con la mano
ne colgo un ciuffo e, quando l'ho colto, lo mordo con i denti.
La gola aveva appena assorbito quel succo misterioso,
che improvvisamente sentii dentro di me un'agitazione
e in petto il desiderio travolgente di un'altra natura.
Non potei resistere a lungo. 'Addio, terra, addio!' dissi.
'Mai più ti cercherò!' e con tutto il corpo mi tuffai sott'acqua.
Gli dèi del mare mi accolsero, onorandomi come loro pari,
e pregarono Oceano e Teti di togliermi ciò che di mortale
potevo ancora avere. Purificato sono da loro
che, pronunciata la formula contro le impurità nove volte,
ordinano che ponga il mio petto sotto il getto di cento fiumi.
E di colpo fiumi scendono da ogni parte
e mi rovesciano addosso un diluvio d'acqua.
Questo è tutto ciò che posso narrarti di quell'evento incredibile.
Solo questo ricordo: di altro non serbo memoria.
Quando rinvenni, mi sentii diverso in tutto il corpo,
diverso da com'ero, e mutato persino nella mente.
Allora mi accorsi di questa barba color verderame,
di questa chioma che trascino sulle distese del mare,
di queste grandi spalle, delle braccia azzurre
e delle gambe che attorcigliate terminano in pinne di pesce.
Ma che mi serve questo aspetto, l'esser piaciuto agli dei marini,
essere un dio, se tutto ciò ti lascia indifferente?". Stava ancora
parlando, e avrebbe detto di più, se con sdegno Scilla
non l'avesse abbandonato. Lui s'infuriò e irritato dal rifiuto
si diresse verso il palazzo incantato di Circe.
Teseo e Anfitrite. Coppa attica a figure rosse, opera del vasaio Eufronio e del pittore Onesimo (ca. 490 a.C.). Parigi, Louvre. |
CONCLUSIONI
Con l’elaborazione di questo breve saggio ho cercato di dimostrare attraverso la disamina attenta di numerose fonti mitico – letterarie che esistono sovente stretti rapporti di filiazione e mutuazione tra i miti antichi e la fiaba popolare.
Dapprima si è analizzato la figura della Narada grecanica e si è notato che la struttura della sua leggenda e la natura del suo aspetto fisico e della sua personalità, sono ricollegabili ad una figura del pantheon greco classico, quella appunto di Empusa, descrittaci da Aristofane nella commedia Le rane, nonché al personaggio omonimo del folklore cretese odierno.
Studiando poi minuziosamente anche la fiaba-leggenda di Colapesce, specialmente nella versione tramandataci dai cantastorie siciliani, si è riscontrato nella sua articolazione narrativa e nella descrizione dei luoghi e dei personaggi che la connotano, elementi riconducibili ad un episodio del mito di Teseo descrittoci da Bacchilide nel XVII ditirambo I giovani. Non mancano in essa, tuttavia a mio avviso, echi letterari del mito di Glauco riportato da Ovidio nel XIII libro delle Metamorfosi.
Ritengo pertanto che gli archetipi mitici delle storie da me esaminate (Narada e Colapesce) siano costituiti da arcaiche storie elleniche diffusesi con molta probabilità in Magna Grecia ed in Sicilia sin dai tempi della prima colonizzazione minoico- micenea (XIV-XII secolo a.C.).
Nelle terre ellenizzate, difatti, le popolazioni indigene assorbirono e acquisirono, spesso trasformandole, le leggende e i miti, che i coloni greci colà diffusero. Col passare dei secoli, questi miti subirono delle modificazioni tematiche e furono tramandati oralmente a tutte le generazioni successive fino a giungere a noi come “relitti” affascinanti riaffioranti dal “mare della Storia antica”.
A conclusione di questo mio studio, mi auguro che gli esiti delle ricerche da me condotte incontrino l’interesse e il favore di chi vorrà riservarmi l’onore di leggere il presente saggio.
Auspico altresì che quest’ultimo contribuisca, anche se in misura modesta, ad accreditare e convalidare ulteriormente il bellissimo pensiero dell’insigne studioso P. Faure, elemento spia e cometa di tutta la mia ricerca: “Una grande civiltà non può morire tutta intera, colare a picco con tutti i suoi uomini e tutti i suoi apparecchi. Di un naufragio resta sempre qualche cosa”.
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