Il 7 agosto 1969 la nobiltà italiana ed europea lesse con apprensione sul Giornale di Sicilia di Palermo, sul Giornale d’Italia di Roma, su Le Figaro di Parigi e su altri quotidiani un necrologio davvero singolare: “Investito da mano pirata è deceduto tragicamente il 5 agosto 1969 in Canicattì S. E. il Referendario Paolo Annarino e Gatto. Ne danno (sic!) il triste annuncio don Turiddu Capra Duca di Santa Flavia e Merlo, che lo ebbe padre, fratello e amico. I resti mortali saranno tumulati di fronte al mare Ionio nell’isola di Capo La Croce in quel di Taormina. Canicattì, 7 agosto 1969”. Letta la notizia fu tutto un susseguirsi di telefonate tra le varie case nobiliari: si chiedevano informazioni sul defunto mai incontrato nei vari ricevimenti mondani e sull’altrettanto sconosciuto autore del necrologio. Nessuno fu in grado di scoprire l’arcano fino a quando qualcuno non osò telefonare all’utenza n. 51969 di via Cattaneo in Canicattì.
All’altro capo del telefono con voce rotta dal pianto rispondeva il barone Agostino La Lomia: sì, il morto era un suo familiare, un bel gatto soriano ucciso davanti al Palazzo da una spider in corsa, un gatto che dopo la morte del suo proprietario, padre Paolo Meli, aveva chiesto e ottenuto asilo nella vicina casa patrizia. Agostino aveva voluto mettere a suo agio nella nuova residenza nobiliare il gatto conferendogli il titolo di referendario e al tempo stesso, per evitare odiose discriminazioni, aveva elevato al rango di duca il merlo acquatico che da tempo gli faceva compagnia.
Fu uno dei tanti scherzi tipicamente parnassiani tanto cari a Fausto di Renda: con questo pseudonimo Agostino La Lomia era entrato nell’Accademia del Parnaso, un sodalizio tra il culinario e il letterario fondato nel 1922 da don Ciccio Giordano nella sua osteria-albergo di piazza Palma. E proprio il presidente dell’Accademia Ciccio Giordano, morto nel 1930 ma dichiarato immortale, fu tra i primi ad inviare le condoglianze di rito: “Questa Secolare Accademia, profondamente addolorata per la tragica dipartita di S. E. il Referendario don Paolo Annarino e Gatto, si associa al grande dolore dei Merli e dei Gatti con grandissimo pene duro e grosso”. Il Duca di Santa Flavia, cui il telegramma era indirizzato, rispose con commozione: “Don Turiddu Capra, Duca di Santa Flavia, ringrazia la Presidenza della Secolare Accademia del Parnaso Canicattinese per la partecipazione presa dal sodalizio alla tragica morte del Gatto Paolo e contrappone al pene duro e grosso la sua forza di uccello nero e deciso”.
Il barone Agostino La Lomia volle che il suo Palazzo fosse la sede onoraria dell’Accademia del Parnaso, un vero salto di qualità ove si pensi che l’inaugurazione ufficiale del sodalizio era stata officiata nel 1924 nel Castello dei Bonanno ma in un vano terrano adibito a deposito delle carrozze funebri.
I componenti del sodalizio erano suddivisi in maggiori e minori: maggiori erano personaggi come Ciuzzu lu Cardiddaru, Carminu Corbu inteso Squajazza, un certo Falzone detto Taganieddu, Pietro Greco, Giuseppe Bennici, Giuseppe Zagarrio, Pietro Cretti (un venditore ambulante con mansioni di segretario), mentre i minori erano, tra gli altri, Trilussa, Luigi Pirandello, Marco Praga, Benedetto Croce, Arnaldo Fraccaroli e Filippo Tommaso Marinetti. Simbolo dell’Accademia era la scecca di padre Diego Martines, vergine per statuto anche se frequentava regolarmente e con profitto le stazioni di monta dei feudi di Gibbesi e della Grasta.
I soci dell’Accademia superavano senza difficoltà alcuna ogni problema. Nella seduta del 2 luglio 1925 fu deliberata l’adozione di uno stemma ove alla scecca di padre Martines si doveva affiancare un leone. Bisognava però andare a Palermo da uno zincografo perché a Girgenti le tipografie non avevano il cliché del leone. Era tuttavia disponibile il cliché di un cane che fu subito utilizzato con questa avvertenza: “Questo cane è leone, a norma del decreto n. 34256 del 2 luglio 1925”.
Oltre al barone La Lomia i veri animatori dell’Accademia del Parnaso furono il farmacista Diego Cigna, assessore e poi sindaco socialista del Comune di Canicattì, l’avvocato Salvatore Sanmartino degradato nel 1948 a senatore della Repubblica nel partito della Democrazia Cristiana e il sarto Peppi Paci, vero poeta dialettale tra tanti bontemponi.
Eroe simbolo del Parnaso fu Pinco Pallino, che rappresentava la figura dell’anti-eroe. A lui si doveva innalzare un mezzobusto con questa epigrafe:
La Patria riconoscente a Pinco Pallino
Ch’essendo buono a nulla, nulla (oh benedetto!) fece.
Esempio perenne e monito urgente
Agli altri grandi uomini.
La statua di Pinco Pallino secondo i parnassiani doveva essere, unica al mondo, con testa fissa. Tutte le altre statue dovevano avere teste svitabili: in tal modo ad ogni cambio di regime sarebbe bastato sostituire le teste evitando di perdere tanto marmo o bronzo. In ogni caso le teste sostituite andavano ben conservate perché, si sa, a volte… ritornano!.
Agostino La Lomia incarnò la figura del parnassiano sempre ironico anche e soprattutto di se stesso e a volte perfino sfottente e dissacratore di tutto e di tutti. Era solito inginocchiarsi davanti al crocifisso quando terminava il rito dell’amore e rendeva grazie per l’avvenuta conferma della virilità. Faceva il segno della croce nei momenti più importanti della giornata e una volta confidò ad un giornalista: “Lo faccio sempre, anche quando una donna mi onora”.
La sua visione della vita era davvero particolare: “La virtù è propria delle bestie, mentre degli uomini sono propri i vizi… Il movimento è amore e l’imprevisto la vita…L’amore è più forte perfino della patria, dell’onore e della vita… Chi si innamora è un eletto… Dove c’è da godere mi ci butto”. Giuseppe Fava ne I Siciliani parlò giustamente della “dolce vita del barone”.
Nonostante la scomparsa del suo inquilino più illustre, il Palazzo di via Cattaneo rappresenta ancora la continuità con un passato non molto lontano ove i canicattinesi, col distacco tipico dei siciliani, grazie all’ironia riuscivano a superare, almeno per pochi momenti, i problemi del vivere quotidiano. Nel vestibolo del piano nobile al visitatore si presenta una riproduzione artistica contenente il decreto di nomina del geometra don Diego Di Caro ad architetto-progettista di una “Città del Parnaso vuoi Urbana e vuoi Rurale”. Un chiaro riferimento alle due sedi dell’Accademia del Parnaso, quella urbana “con acqua corrente” e quella rurale “con annesso orto”. Il sogno di una città ideale concepita come rifugio fuori dalle temperie esistenziali. Una speranza che si rivela subito, ahimè, fallace ed effimera non appena si legge la data del decreto: 1° aprile 1927. Sì, nient’altro che un pesce d’aprile… parnassiano!
GAETANO AUGELLO