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Palermo e i suoi monti“, una storia ricca di storie, un capitolo ricco e interessante, che oggi scopriamo insieme a Gaetano Basile. Dalle colline alle neviere, dai Santi agli alberi al contrario: curiosità da conoscere sul capoluogo siciliano, alla maniera dello storico palermitano.

Gaetano Basile racconta “Palermo e i suoi monti”

In occasione del Festival RestART, lo storico e giornalista ha dedicato una serie di approfondimenti alla città di Palermo. Un viaggio attraverso aneddoti curiosi e interessantissimi, che chiamano in causa ogni aspetto del capoluogo.

Dopo “Palermo e il suo mare” e “Palermo e i suoi fiumi“, è stata la volta di “Palermo e i suoi monti“, anche se “In realtà di montagna ce n’è una sola, perché il resto sono colline. Lo stesso Monte Pellegrino, con i suoi 605 metri,  per 5metri è diventato montagna”, precisa subito Gaetano Basile.

“Io comincerei dalla prima montagna, iniziando da Est, quindi iniziando dall’ingresso dell’autostrada per Catania”. Quella montagna è Monte Grifone, brullo che ha in cima il cimitero di Santa Maria di Gesù, ma anche un curioso cipresso che cresce al contrario. Il cipresso di San Benedetto il Moro.

Proprio San Benedetto il Moro offre a Basile la possibilità di raccontare un aneddoto interessante. Un giorno, alcuni suoi ospiti arrivati dall’Argentina, gli chiesero di vedere il posto in cui riposa “San Benito da Palermo”. Ma chi è San Benito da Palermo? È proprio San Benedetto il Moro, che ebbe successo nel mondo spagnolo e, nei territori colonizzati dagli spagnoli, è noto come “San Benito da Palermo“.

Il Santo aveva una sorta di piccola cappella sulla montagna: un bel giorno dimenticò il suo bastone piantato in terra e quello mise le radici: “Solo che fu messo al contrario, per cui l’albero crebbe al contrario ed è ancora lì. È una pianta curiosissima. È una rarità botanica”, spiega Basile.

Alla base, poi, Monte Grifone nasconde un’altra curiosità, cioè il serbatoio dell’acqua dell’acquedotto di Palermo. Lo storico ha potuto visitarlo in barca, per un servizio televisivo: “Accanto, se ci fate caso, ci sono gli archi, detti gli archi di San Ciro. Sono archi di fattura saracena: che ci stanno a fare lì? Lì ci sono le sorgenti Maredolce, quelle del Castello della Favara, che non è un castello ma una villa, una villa che aveva un mare, un lago di acqua dolce ed era alimentato proprio da queste sorgenti”, aggiunge.

Le neviere

Procedendo oltre, sopra Belmonte Mezzagno c’è Pizzo Niviera e, sopra Altofonte, c’è la Punta Moarda, accanto Monte Caputo (che sovrasta Monreale). Sul Monte Caputo si trova il Castellaccio, che era un antico “posto estivo per i monaci”. Oggi ne rimane ben poco, perché è stato distrutto e portato via pezzo per pezzo.

Ancora spostandosi verso sinistra vediamo che ora c’è Gibilrossa. Sopra Belmonte Mezzagno c’è Pizzo Niviera. Sopra Altofonte c’è la Punta Moarda, c’era un bellissimo bosco, ma è stato bruciato regolarmente, come vuole la prassi. Accanto c’è Monte Caputo. Monte Caputo è un monte che sovrasta Monreale.

Nella vallata fra Pioppo e Giacalone c’erano le neviere. “Le neviere si facevano in posti dove il vento accumulava grande quantità di neve. Si faceva a suo tempo una bella buca quadrata, profonda anche fino a 25-27 metri, e si metteva uno strato di paglia e si buttava giù con le pale la neve. Poi, con dei tronchi d’albero, si batteva in modo che fosse bella, pressata e non squagliata”, spiega Gaetano Basile.

“Diventava, nel giro di pochi giorni, ghiaccio. Quando finalmente si era arrivati al livello della terra, si ricopriva con foglie secche, paglia e si andava a prelevare la neve nel periodo estivo. Questa neve veniva tagliata a quattrocchi e su dei muli, di notte, per evitare il caldo del giorno, veniva portata in città”. Le rivendite della neve, a Palermo, erano in vicolo della Neve e via della Neve. La vendita, nel capoluogo, durò fino alla fine dell’Ottocento, quando nacque, a piazza Tonnarazza (Sant’Erasmo) il primo impianto di una società inglese che fabbricava ghiaccio.

Monte Cuccio

Arriviamo così al “monte per eccellenza”: Monte Cuccio, con i suoi 1050 metri. “Leggenda vuole – e tutti i palermitani se lo raccontano, tramandando di padre in figlio una delle più grosse boiate che siano mai esistite – che questo fu un antico vulcano. Ma quale vulcano! Vengono tratti in inganno dalla forma conica. E tutti pensano che è un antico vulcano“.

Vulcano non lo fu mai, ma nasconde molte cose, come una cappella con un bellissimo affresco del tardo Duecento, primi del Trecento. E poi, alla Falconara, che è un lato del monte, negli anni Cinquanta c’erano delle grotte con dei laghetti carsici.

La Conca d’Oro

Ci fermiamo per una sosta e ammiriamo la Conca d’Oro. Sapete perché si chiama così? Facciamo un passo indietro e cominciamo dall’arancio. In siciliano “aranciu“, maschile: è l’arancio amaro, l’unico tipo di arancio che conoscevamo. Alla fine del Quattrocento, arrivarono numerose navi mercantili portoghesi, che vennero a portare un altro tipo di “arancio”. Un arancio dolce, giallo e buono da mangiare.

“Noi, allora, chiedemmo subito ‘Come si chiama?'”, ha aggiunto Basile. “Risposero che l’avevano comprato in Estremo Oriente e che quelli che glielo avevano venduto lo chiamavano nāranj, nāranğ. Noi, che siamo furbi, abbiamo tolto la n e diventò arancia, per distinguerla da aranciu amaro“.

Questa arancia ebbe un successo incredibile: se ne comprarono quantità enormi, che vennero impiantate sulle colline che circondano Palermo ad anfiteatro. Lì crescevano benissimo, era uno spettacolo. “Dato che queste arance cominciavano a maturare all’albero, illuminate dalla luce che viene da Bagheria, tanto per capirci, cominciavano a dare un colore dorato”, ha spiegato Basile. “Ecco perché la chiamammo Conca d’Oro“.

Monte Pellegrino

E poi arriviamo finalmente a Monte Pellegrino. Però, prima, c’è tutta una serie di colline che arrivano fino a Sferracavallo, chiamate “i colli”. Questi colli si trovano con una vallata ai piedi e con dall’altro lato Pizzo Sella, Capo Gallo e Monte Pellegrino.

Praticamente questo è un corridoio meraviglioso, dove passava una volta una corrente di aria fresca che veniva dal mare. Da Sferracavallo si univa alle correnti di mare che c’erano in città e quella zona era talmente fresca che tutta la nobiltà palermitana si andò a fare la villa. Le ville dei colli erano 60, oggi ce ne sono una trentina, alcune in ottimo stato, altre purtroppo ridotte a una schifezza, altre addirittura scomparse”.

Monte Pellegrino si chiama così perché i romani lo chiamarono “Peregrinus“, che in latino in latino significa “ostile”: questo perché lì sopra aveva l’accampamento Asdrubale con i Cartaginesi.

“Asdrubale aveva il campo esattamente davanti la grotta di Monte Pellegrino, dove oggi c’è il laghetto. La grotta di Monte Pellegrino era un tempio cartaginese, tant’è vero che resta la traccia del tempietto”, racconta Gaetano Basile. E aggiunge: “Monte Pellegrino ha un’altra particolarità. Mi diceva un esperto di queste cose che era un’isola, quando tutta la zona di Palermo, fino ad arrivare a Sferracavallo era una laguna di tipo tropicale. E nel mezzo c’era questo isolotto. È fatto di pietre che nulla hanno a che vedere col resto”.

E cosa c’è sul Monte Pellegrino? La risposta di Basile non tarda ad arrivare: “Naturalmente cinghiali, volpi, conigli, ricce, donnole, arvicole che sono una specie di topini. Ma la cosa più interessante sono: la lucertola siciliana che è un lucertolone di colore azzurro, è un’altra specie rarissima, assolutamente eccezionale: si chiama rospo smeraldino. Alcuni esemplari si trovano nel laghetto che c’è davanti la grotta di Santa Rosalia”.

“E poi ci sono anche il falco pellegrino, la poiana, la civetta, il barbagianni, il gheppio, che va a 200 all’ora con delle virate terribili in mezzo agli alberi”, conclude Basile.

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