L’abitudine di mangiar frattaglie potrebbe derivare addirittura dalla Preistoria, quando ci si procurava il cibo cacciando; sicuramente i primi ominidi non disdegnavano le interiora, che oltre ad essere saporite sono anche particolarmente nutrienti.
Abbastanza sicuramente, i piatti a base di frattaglie derivano dalla nostra antica tradizione contadina, quando la carne era presidio dei ricchi mentre le interiora potevano essere mangiate da tutti.
In Sicilia, a Palermo, c’è una tradizione che risale addirittura al periodo in cui l’Isola era una colonia greca, e viene portata avanti ancora oggi nei più antichi e storici mercati della città.
È l’arte di mangiare il ‘quarume’, una pietanza calda a base di frattaglie bovine, insieme a verdure bollite, brodo e cipolle. Sui banchi dei più noti ‘quarumaru’ di Ballarò e della Vucciria, lo storico mercato dipinto dal Guttuso, svetta infatti la gran pentola, quella dove vengono conservati al caldo i preziosi ingredienti: u’ zzinieru, ovvero il duodeno del bovino, l’uòibba, la sua parte finale, ‘u vurieddu ri cura e u cularinu, il retto e l’ano, ‘u centupieddi, il secondo stomaco, ‘u quagghiaru, altro budello, in particolare un’altra cavità dello stomaco dei ruminanti, ‘u vacciminu, la parte grassa e callosa sita sotto lo stomaco e, naturalmente la trippa.
Forse sarebbe meglio non sapere cosa il ‘quarume’ contiene, eppure chi lo ha provato conferma quanto sia squisito. Presso i banchi del Capo e nei pressi della chiesa del Carmine Maggiore, i ‘quarumaru’ più famosi servono le interiora su un piatto di plastica o su un foglio di carta oleata, levandoli fumanti dalla grande pentola, e facendoli a pezzi della grandezza desiderata.
A Porta di Termini si vendono anche le teste di capretto bollite, mentre in via Chiappare al Carmine le frattaglie vengono vendute crude per i clienti che preferiscano cuocerle a casa, magari con le patate.
Il piatto di frattaglie più famoso in Italia è sicuramente la trippa: cucinata dal Lazio alla Toscana, dalla Lombardia alla Sardegna, è il piatto più rappresentativo del centro-nord d’Italia.
Ma al Nord si mangia anche il cervello, fritto, come ad esempio in Toscana, dove lo arricchiscono usando la fontina, già dal VI secolo.
Molto apprezzato è anche il fegato, sia in Lombardia che in Campania; da non dimenticare poi i rognoni, quella parte di cosiddette interiora rosse che vengono particolarmente amate persino in Inghilterra e in Svezia, soprattutto se derivanti da agnello o vitello.
Ma stomaco e intestini vengono utilizzati anche in alcune zone della Grecia e della Spagna, a conferma, probabile, della nostra comune radice indoeuropea.
In buona parte della Spagna e in alcune zone dell’America Latina, si prepara infatti un noto insaccato, che nella Penisola Iberica, da dove deriva, è noto con il nome di ‘morcilla’, piatto simile al Blutwurst tedesco. La più nota morcilla è quella di Burgos, ma esiste anche una versione particolarmente nota creata a Jaén, definita ‘bianca’; altro non è che il sanguinaccio: in Spagna è composto da sangue coaugulato di maiale con riso, cipolla e altri ingredienti come zucca, mollica di pane, pinoli, nocciole e pepe, tutti ben infilati nel suo budello.
In Calabria, il sanguinaccio è a base di sangue di maiale e vino cotto o ricotta, mentre in Lombardia e Piemonte si usa mescolarlo a patate e spezie, e prende il nome di ‘marzapane’. In Campania si ama preparare il sanguinaccio in una versione fortemente dolce e speziata con buccia d’arancia, cacao, pinoli e uva passa, mentre in Toscana lo si apprezza meglio con un po’ di finocchietto selvatico. In Liguria, oltre ai pinoli, si aggiungono anche latte e sale.
Autore | Enrica Bartalotta