Nella tradizione gastronomica della città di Palermo, c’è anche il cosiddetto ‘cibo di strada’, ovvero quei prodotti che si possono trovare, spesso e volentieri nei mercati, e che possono essere mangiati per strada, con le mani, al volo.
Sono solitamente piatti poveri, molto semplici e veloci da realizzare, a base di carne o formaggi, ma spesso e volentieri vengono anche accompagnati o sono costituiti da un prodotto a base di pane. La storia dei ‘frittula’ risale alla metà del Quattrocento, quando presso il macello pubblico di piazza Sant’Onofrio, si iniziò a produrre la sugna, o ‘saìmi’ in siciliano. Per ottenere la preziosa sostanza untuosa con cui poi si realizzavano soprattutto i dolci, ma praticamente tutti i prodotti della panificazione, si usava qualsiasi tipo di grasso animale; ciò che restava dalla cottura ad elevate temperature, veniva gettato perché considerato inutilizzabile, dato che aveva perso tutto il suo gusto.
Erano i ‘frittula’, ovvero quei residuati di carne e grasso che, una volta fatti a pezzi e fritti, e poi insaporiti con delle foglie di alloro, poco pepe e zafferano, acquistarono immediatamente non solo sapore, ma anche l’interesse di una fascia della popolazione, quella povera e cristiana, che così si poté permettere un delizioso e nutriente snack, con pochi spiccioli.
I ‘frittula’ venivano venduti infatti in passato dagli Ebrei, che molto spesso erano impiegati nella macellazione; questi pezzi di carne erano il loro compenso per un’attività, che secondo le loro usanze, non ammetterebbe un trattamento economico. I ‘frittula’ vengono ancora oggi venduti nei punti nevralgici delle vie, soprattutto tra i banchi dei mercati o in prossimità delle taverne, dov’era più facile trovare persone, magari proprio all’ora di pranzo. Il modo in cui i ‘frittula’ vengono trasportati e venduti è ancora oggi in uso, in un modo ancora piuttosto simile a quello utilizzato dai ‘frittularu’ del Cinquecento.
I pezzi di carne vengono disposti in una cesta fatta di giunchi intrecciati e rivestiti di panni di lana per preservare il calore. In cima, veniva poi e viene tutt’ora posta, una ‘mappìna’, ovvero un canovaccio pulito volto a non raffreddare le grasse leccornie. Il ‘frittularu’, ha l’abitudine di prendere i pezzi di carne fritti e speziati da una sola apertura strategica, posta su un lato del cesto, e di disporli in un sopporto volto a non far sporcare le mani dell’avventore: una volta era una foglia di vite, fico, noce o gelso, oggi è un foglio di carta oleata disposto a mò di cono o di piatto.
Il ‘frittularu’, era dunque un venditore ambulante, un ‘buffittiero’, ovvero colui che offriva leccornie di strada alla popolazione. Ancora oggi, egli viene chiamato con questo nome, che con tutta probabilità deriva dal francese ‘bouffet’, ovvero banchetto, il luogo da cui si serve assieme ad altri venditori della tradizione culinaria ‘di strada’, come il ‘cacciuttaru’, che inizialmente vendeva pane e strutto arricchito con ricotta, mentre dalla cacciata degli Ebrei dalla Sicilia serve la ‘maritata’, una focaccia di milza e ricotta, lo ‘stigghiulari’, colui che ha il presidio delle frattaglie, ma anche lo ‘sfinciaru’ e il ‘caliaturi’, colui che arrostisce le castagne.
Autore | Enrica Bartalotta
Foto di Giuseppe Romano