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Tonno? No, tunnina! Se i siciliani la chiamano così, è perché sono sempre un passo avanti

Tonno? No, chiamatela tunnina! Soltanto in Sicilia si usa questo nome e c’è un motivo ben preciso: a rivelarci quale sia quel motivo Gaetano Basile, con una storia che, pensate, chiama in causa il Festino di Santa Rosalia. Scopriamone di più.

Perché in Sicilia si chiama ‘a tunnina?

Lo storico e giornalista palermitano ha dedicato un interessantissimo approfondimento al legame che c’è tra la Santa e la città, rivelando aneddoti, segreti e curiosità, in occasione del Festival RestART. Storia e storie di Palermo, che non possono non passare anche dalla tavola.

Siamo nel 1624, quando nasce il famoso Festino di Santa Rosalia. Dovete sapere che le signore, negli anni tra il 1624 e il 1625, in occasione della ricorrenza “Ottengono tre giorni di ferie dalla cucina. Non cucinano. Bisogna preparare in anticipo ciò che si dovrà mangiare e, allora, è il momento di tutta quella nostra cucina popolare che va dalle sarde a beccafico, alla caponata, a tutte quelle cose sottaceto“, spiega Basile.

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Ora, in italiano si chiama tonno, ma per noi siciliani è ‘a tunnina. Sapete come mai? “Perché noi seguiamo gli insegnamenti di Archestrato di Gela il quale, 400 anni prima che nascesse Gesù Cristo, scrisse che la carne migliore è quella delle femmine, perché è più tenera, più delicata, più saporita. E allora noi mangiamo tunnina, perché non siamo fessi!”, rivela lo storico palermitano.

La storia non finisce qui. Quando la tunnina pescata arrivava a fine maggio, primi di giugno, addirittura a giugno inoltrato senza il ghiaccio, “camminava da sola”. “E allora è il momento in cui il venditore di tonno tira fuori una regola di marketing, che ancora funziona fino ai giorni nostri. Sul tonno ”fituso” ci mette tre garofani rossi che indicano ”o t’accatti o la butto” (”o la compri, o la butto”)”.

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Cosa facevano, quindi, le nostre nonne? La facevano “vugghiuta“, cioè bollita, poi la mettevano in una “burnìa” (cioè il vaso di vetro in arabo), insieme a olio, foglie d’alloro e pepe in grani. Chiudevano ermeticamente con un laccio e mettevano da parte. La prima apertura era per il Festino, a metà luglio. In quell’occasione si apriva “a vugghiuta”. Si tirava fuori questo tonno ed era buono, non puzzava più.

Per completare ancora di più il suo racconto, Gaetano Basile svela anche una ricetta che ancora prepara: “Non comprate il tonno in scatoletta, quello non è manco tonno. Non si sa cosa ci sia dentro. Comprate il tonno nella burnìa, dove si vedono i vari pezzi, e li tirate fuori dall’olio. Poi mettete nel frullatore (un tempo si usava il mortaio) della menta fresca con l’olio della burnìa, e mettete sul tonno questa crema fresca con la menta. Ve lo assicuro, è una delle cose più buone che si possano mangiare”.

Tornando al racconto del passato, se durante il Festino si voleva mangiare una cosa calda, ecco, c’erano i venditori di roba calda già pronta, la cucina di strada, come pani ca meusa e quarume. E poi il grande classico: i babbaluci, più che un cibo, un modo per passare il tempo. Che sia tunnina, cibo di strada o babbaluci, poco cambia: è sempre un meraviglioso trionfo di tradizione!

Redazione