Con il fazzoletto in testa e le cocche annodate dietro la nuca, le donne si allacciavano il grembiule, si tiravano su le maniche fino al gomito ed erano pronte per il rito settimanale. Si preparava a ràzzia cioè si scioglieva u criscenti assieme ad un pizzico di sale nell’acqua calda. Dopo si versava un po’ di farina nella maiedda e si preparava la conca o la fonta e dopo avere simbolicamente tracciato, all’interno dell’area, il segno della croce, si versa la ràzzia e a poco a poco si impastava la farina lavorandola poi energicamente con i pugni.
Appena l’impasto, a forza di braccia e di sudore, risultava sufficientemente amalgamato, si passava alla scaniata. Per questa operazione, faticosa anch’essa, si usava u scaniaturi composto dalla sbria, una tavola di legno sagomata dai vaghi lineamenti femminili, e dallo sbriuni, un robusto asse di legno incavicchiato ad una delle due estremità proprio sul petto della sagoma. Esso veniva impugnato dalla parte opposta da una donna e veniva alzato e abbassato ritmicamente sull’impasto, schiacciandolo, mentre un’altra donna, seduta a cavalcioni sulla testa della sbria, lo girava, lo rigirava e lo sollevava a tempo senza perdere il ritmo. Dopo una buona mezz’ora di fatica, l’impasto era scaniatu, e allora si iniziava ad appanare.
Storie e vecchie usanze – Scaniari u pani.
28 Feb 2019
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Ecco perché in Sicilia si dice "Botta ri sali!"
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