Nella Sicilia del passato il pranzo di Natale era molto più importante del cenone. Angela Marino condivide con noi i suoi ricordi.
La sera del 24 dicembre non c’era molto tempo da dedicare alla tavola: dopo la novena davanti al proprio Presepe, si andava in Chiesa per assistere alla “calata di lu velu” (funzione religiosa durante la quale, a mezzanotte, veniva tolta una grande tenda che nascondeva il Presepe), poi si assisteva alla Messa e si rientrava a tarda notte.
Il giorno dopo, invece, le famiglie si riunivano numerose per il pranzo di gala. I preparativi erano lunghi e complessi. L’antivigilia di Natale , di buon mattino, si “tirava lu coddru a lu capuni” (si uccideva il cappone) che avrebbe costituito il pezzo forte del pranzo natalizio. Si trattava di un’operazione molto delicata che spesso veniva portata a termine dal capo famiglia: infatti bisognava far sì che la bestia morisse di colpo altrimenti la carne sarebbe stata meno buona. Poi il cappone veniva appeso a testa in giù e lasciato immobile per 24 ore in modo che il sangue si coagulasse nel collo e la carne restasse perfettamente bianca.
La mattina del 24 era il momento della spennatura e della pulitura della bestia… A casa mia spesso facevano assistere anche noi bambini a queste operazioni e la nonna ci mostrava come tirando un nervo si apriva e chiudeva una zampa, ci indicava, il cuore e gli altri organi interni e, alla fine, se eravamo stati buoni, ci regalava la “vozza” debitamente svuotata, ripulita e asciugata. La “vozza” credo che fosse lo stomaco del cappone e noi ci divertivamo a gonfiarla come se fosse un palloncino.
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Quando il cappone era ormai ben svuotato e pulito, veniva esposto per pochi secondi alle fiamme del ”cufularu” (focolare, fornello della cucina a legna) perché si bruciassero le ultime piumette rimaste dopo la spennatura . Poi “ lu capuni s’inchiva”. “Inchiri lu capuni” più che ”riempire o preparare o condire il cappone” significa “farcire il cappone”.
Infatti il cappone veniva farcito con un impasto di tritato, uova, formaggio e pangrattato a cui venivano uniti i fegatini e le altre interiora finemente spezzettati e un trito di prezzemolo ed altre erbe aromatiche.
Dopo la farcitura, il cappone veniva cucinato in brodo, per ore ed ore: sarebbe stato il piatto forte del pranzo di Natale. Mi ricordo che le signore a metà novembre cominciavano a sovralimentare il cappone più bello del pollaio ingozzandolo con fave e altri cibi supercalorici e alla fine lo si pesava e spesso si confrontava il peso con quello degli animali di amici e parenti : era una specie di gara tra chi lo aveva ingrassato meglio…
E al pranzo di Natale una ciotola di brodo “cu l’occhi” (con le macchie di grasso) con buona pace del colesterolo, una porzione di coscia o di petto, una fetta di “chinu”(appunto, la farcitura)… tante patatine“aggrassati”(glassate) per contorno e…perchè no? un bel ”caddrozzu di sazizza” (nodino di salsiccia) arrostita proprio all’ultimo momento perché fredda sarebbe stata meno buona…e… chi più ne ha più ne metta…
Come dessert c’erano grandi ceste di frutta invernale: “partualli (arance agre), “piretta” (cedri), “nuci, nuciddri, mennuli, fastuchi”, etc.(noci ,nocciole, mandorle, pistacchi)…e poi “ li così di Natali”(i dolci natalizi).
A casa mia, ricordo che si preparava anche una enorme “cassata” a base di pan di Spagna, crema di ricotta, marmellata casalinga e decorata con canditi e mandorle tostate e tritate.
I miei mi hanno raccontato che, nei Natali del dopoguerra, i parenti dell’America mandavano nei pacchi dono, una “checca” (“dolce”, in linguaggio italo-americano) che era una specie di panforte… Il panettone allora forse non esisteva… o, se esisteva, non era ancora usato dalle nostre parti.
Foto di Giulia Iozzia