Il 23 maggio del 1992 il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani vengono ucciso dalla mafia lungo l’autostrada A29. L’esplosione della Strage di Capaci avvenne alle 17.56 e 48 secondi. Cosa sappiamo oggi, i processi, il ricordo nel trentennale.
Sono passati 30 anni e la data del 23 maggio è diventato emblema per la rinascita di un Paese. Dal 1993 la Fondazione Falcone ricorda le vittime della mafia con manifestazioni, convegni e cortei. A partire dal 2006, insieme al ministero per l’Istruzione, organizza un evento a cui partecipano migliaia di studenti e docenti italiani (la Nave della Legalità).
I luoghi-simbolo degli avvenimenti, dall’aula bunker del carcere Ucciardone (sede del primo maxiprocesso a Cosa Nostra), all’Albero Falcone, davanti l’abitazione di Giovanni Falcone, si svolgono iniziative e manifestazioni.
Alle ore 17.56 e 48 secondi di sabato 23 maggio 1992, una forte esplosione devasta un tratto dell’autostrada A-29, all’altezza dello svincolo per Capaci-Isola delle Femmine. L’obiettivo sono tre auto blindate: in una c’è il giudice Giovanni Falcone, 53 anni, insieme alla moglie, Francesca Morvillo, 47 anni e anche lei magistrato. Stanno viaggiando con la scorta dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo.
La strage di Capaci li uccide entrambi, insieme a tre agenti della scorta: Antonio Montinaro e Rocco di Cillo, entrambi trentenni, e Vito Schifani, di 27 anni. Cinquecento chili di tritolo, nitrato di ammonio e T4 investono in pieno la prima auto del convoglio, una Croma marrone: viene sbalzata in un campo di ulivi lontano decine di metri, completamente distrutta.
La seconda auto è una Croma bianca: si schianta violentemente contro l’asfalto che si è alzato. Giovanni Falcone e Francesca Morvillo vengono scaraventati contro il parabrezza e muoiono poche ore dopo in ospedale. L’autista, Giuseppe Costanza, sopravvive, così come gli uomini della scorta nella terza auto, una Croma azzurra: Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo.
Secondo quanto ricostruito, gli attentatori usano un radiocomando normalmente utilizzato nei modellini di aeroplani, che invia un segnale a un apparecchio che, a sua volta, attiva un circuito elettrico collegato ai fili dei detonatori sulla carica esplosiva. La ricevente è una scatola di compensato, in cui è collocato un motorino elettrico alimentato da batterie a 1,5 volt.
Un attentato pianificato da lungo tempo. Diversi collaboratori di giustizia tra cui Giovanni Brusca, esecutore della Strage di Capaci, negli anni Novanta raccontano che, già dall’inizio degli anni Ottanta, in cui viene istituito il pool antimafia, il giudice Falcone era obiettivo della mafia.
Stando alle rivelazioni emerse in seguito, l’attentato viene rimandato più volte per vari motivi. Fallisce il tentativo organizzato all’Addaura, nei pressi della villa presa in affitto da Falcone, nel giugno del 1989. La decisione di compiere la strage lungo l’autostrada A29 viene presa in due riunioni delle cosiddette “commissioni” provinciali e interprovinciali di Cosa Nostra.
Dopo Giovanni Falcone, l’obiettivo è Paolo Borsellino, assassinato con cinque uomini di scorta il 19 luglio del 1992, nella Strage di via D’Amelio. Vengono pianificati e decisi anche altri attentati. Giovanni Brusca ha già partecipato all’attentato a Rocco Chinnici nel 1983: è un uomo di fiducia di Totò Riina.
Brusca e alcuni uomini che fanno parte del gruppo che compie l’attentato, fanno sopralluoghi nei pressi dell’abitazione di Falcone. Viene poi individuato un passaggio pedonale sotto l’autostrada A29, ma viene scartato perché serve un luogo piccolo e stretto. Si individua quindi un punto all’altezza dello svincolo di Capaci.
Si individua un luogo in cui avere la visuale del tratto d’autostrada e viene studiata l’andatura della auto dall’Aeroporto di Punta Raisi al luogo dell’attentato. Sabato 23 maggio sette persone attendono in un casolare non lontano da Capaci. Si muovono quando ricevono una telefonata, che le informa che le auto si stanno muovendo dal garage della Questura per andare all’aeroporto.
In cima alla collina in località Raffo Rosso, nel comune di Isola delle Femmine, ci sono appostati alcuni uomini, in attesa del segnale. Dopo l’attentato e la tremenda esplosione, Brusca e gli altri che hanno partecipato si ritrovano in una villetta a Palermo. Guardano la televisione, preoccupati per il Giovanni Falcone è ancora vivo. Giunge la notizia che il giudice è morto.
L’attentato di Capaci scuote le coscienze, prendono vigore i movimenti antimafia. Ai funerali partecipa una folla commossa, che chiede giustizia. I mandanti e gli esecutori della Strage di Capaci vengono arrestati nei mesi e negli anni seguenti. Tutti i componenti della commissione provinciale di Cosa Nostra vengono condannati all’ergastolo come mandanti.
Alcuni degli esecutori materiali diventano collaboratori di giustizia e hanno avuto pene minori. Antonino Gioè, che aveva dato il via a Brusca il via per azionare il radiocomando, si suicida nel carcere di Rebibbia il 28 luglio 1993, poco dopo l’arresto.
Lascia scritto: «Stasera sto trovando la pace e la serenità che avevo perduto circa 17 anni fa. Perse queste due cose io sono diventato un mostro e lo sono stato fino a quando ho preso la penna per scrivere queste due righe».
Dopo l’attentato di Capaci, Giovanni Brusca è responsabile del rapimento e dell’omicidio di Giuseppe Di Matteo, che ha 12 anni. Lo sequestra il 23 novembre del 1992 per impedire che il padre Santino collabori con i magistrati. Uccide il bambino dopo 25 mesi di prigionia: lo strangola e poi lo fa sciogliere nell’acido.
Giovanni Brusca viene arrestato il 20 maggio del 1996: dalle indagini e dalle rivelazioni dei pentiti emerge che è nascosto in contrada Cannatello, una frazione di Agrigento. Inizia a rilasciare dichiarazioni ai magistrati un mese dopo l’arresto. Ottiene nel 2000 lo status di collaboratore di giustizia.
Riceve una condanna a 30 anni di reclusione e, dopo 25 anni, viene scarcerato. Rimane sotto sorveglianza per altri 4 anni. Cambia nome e vive sotto protezione.
In un’intervista rilasciata alla tv francese (in cui naturalmente non mostra il volto), dichiara: «Ho riflettuto e ho deciso di rilasciare questa intervista: non so dove mi porta, cosa succederà, spero solo di essere capito. Ho deciso per fare i conti con me stesso, perché è arrivato il momento di metterci la faccia, anche se non posso per motivi di sicurezza, ma è nello spirito e nell’anima di farlo. Di poter chiedere scusa, perdono, a tutti i familiari delle vittime, a cui ho creato tanto dolore e tanto dispiacere».
Esistono altri filoni di indagine per la Strage di Capaci, anche per accertare la responsabilità di eventuali mandanti esterni all’associazione mafiosa. Il dibattito rimane ancora aperto, sebbene molte indagini siano state archiviate. La mafia non prende ordini». Dei mandanti e degli esecutori dell’omicidio di Giovanni Falcone rimane libero e latitante solo Matteo Messina Denaro.