La lingua siciliana è ricca di sfumature e modi di dire davvero particolari. Basta fare un giro per strada per rendersi conto di quanto possa essere colorita. Alcuni di questi modi di dire affondano le radici nel passato e nascondono storie molto particolari. Vi è mai capitato, ad esempio, di sentire l’espressione “Trunzu di malafiura“? O, ancora, di pronunciare il detto “Pàmpina assumiglia a trunzu“? Il protagonista di queste frasi è sempre lo stesso: ‘u trunzu. Ma cosa sarà mai questo “trunzo”? La risposta è davvero semplice e ci porta ad esplorare un terreno – nel vero senso del termine – legato alla cultura contadina della nostra isola. Il Cavolo Trunzu, o Trunzu di Jaci, è un prezioso presidio Slow Food, un ortaggio tipico delle pendici dell’Etna.
Ma cosa c’entra questo ortaggio con il termine che stiamo approfondendo? C’entra, eccome se c’entra. “Trunzu”, infatti, deriva dallo spagnolo “trompicar“, che significa “inciampare” e si riferisce proprio al fusto. In passato, in forma di spregio, i catanesi erano soliti rivolgersi agli acesi con l’appellativo di trunzu, col significato di ‘testa di rapa’ o di persona inconcludente. Niente di più semplice, dunque. Esistono, anche in altre parti dell’isola, modi di utilizzare l’epiteto (sempre in modi poco carini), con un significato analogo. Vi potrebbe capitare, ad esempio, di sentire dire “Trunzu trunzu”, da tradurre come “sfacciatamente” o anche “Arristari a trunzu” , cioè rimanere fermi e inerti (un po’ “lasciati in tredici”).