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Il viandante (termine poco utilizzato ai nostri giorni, ma l'unico adatto ad intendere “chi va per le vie”, sottinteso – s'intende – camminando a piedi!) che dalla piazza dell'Olivella imbocca via Bara per scendere in via Roma, ha la possibilità di osservare una delle “scoperte” fatte in seguito ai lavori di restauro che sono ancora in corso al Museo.
All'inizio della parete nord, proprio all'angolo con la cancellata in ferro che delimita il fronte principale del fabbricato, ormai libero dalle impalcature che lo hanno “ingabbiato” per alcuni anni, al di sopra del basamento in marmo di Billiemi, è ben visibile una scritta incisa sui grossi conci di tufo ripuliti dal restauro recente: “1729 INCIACATO”.
Una data abbinata ad un'azione compiuta, incise nella pietra per fissare e tramandare qualcosa di cui, evidentemente, non si voleva far perdere la memoria.
Per capire di più dobbiamo interrogare la storia dell'edificio, già sede della Casa conventuale dei Padri Filippini, nelle sue diverse fasi costruttive, ricollegate nella loro completezza dal paziente lavoro di ricerca sul complesso monumentale dell'Olivella pubblicato nel 2012 dall'architetto Ciro D'Arpa >>> http://www.abebooks.it/
Nella cronologia dei fatti più significativi troviamo che nel 1728 la Congregazione dell'Oratorio di S. Filippo Neri all'Olivella acquista l'insieme di abitazioni private che occupavano l'area a ridosso dell'ingresso principale della loro Casa, decidendo di abbatterle con un duplice scopo: dare respiro al suo fronte “di rappresentanza” ed ampliare la piazza antistante.
I lavori furono diretti da quel Francesco Ferrigno che, in qualità di architetto, seguirà diversi interventi all'interno della Casa oratoriana e della Chiesa di S. Ignazio, non ultima l'edificazione della sua cupola.
La nostra scritta, datata 1729, si ricollega allora all'atto finale di quella fase di ridefinizione architettonica della piazza, quando verrà decorosamente lastricata con basole di Billiemi: così è da intendere la forma dialettale INCIACATO, che rinvia alla “ciaca”, in siciliano “grossa pietra”.
Con quanta attenzione ed orgoglio gli esecutori dei lavori vollero allora lasciare segno della propria opera, ce lo racconta ancora la scritta incisa sulla pietra.
Con quanta ignorante inciviltà e disamore per questa città alcuni si avvicinano oggi alle “cose di tutti” della nostra Palermo, ce lo raccontano i graffiti lasciati con il nero delle bombolette spry un po' più giù, sulla stessa parete esterna del Museo, scritte comparse qualche giorno dopo la dismissione delle impalcature…
Ma questa è un'altra (vecchia) storia.