La violenza nel calcio e’ stata sintetizzata a lungo dai temutissimi tifosi anglosassoni, gli hooligans. Ma dopo le immagini e i fatti dell’Olimpico di sabato sera, forse, anche i nostri ultra’ e le nostre curve non sono poi cosi’ lontane da quella violenza che, a partire dalla fine degli Sessanta, ha trovato negli stadi una sorta di luogo di ritrovo per alcune subculture come gli skinhead, o i rude boy, non legate al movimentismo politico di sinistra. Il termine comparve per la prima volta nel 1898 in una denuncia della polizia di Londra. Per alcuni deriva dal nome di un malvivente di origine irlandese, Patrick Hooligan; altri lo collegano alla “Hooley’s Gang”, una banda di giovani delinquenti provenienti dal quartiere londinese di Islington. Il fenomeno e’ stato ben evidente fino agli anni Novanta, quando si decise, per esempio, di confinare la nazionale inglese a Cagliari nei Mondiali italiani per evitare che i tifosi venissero a contatto con le frange della tifoseria italiana considerata piu’ violenta. In realta’ in Inghilterra il problema ha da tempo trovato una soluzione con una serie, se vogliamo anche banale, di regole per confinare il fenomeno.
Sono stati i tragici fatti dell’Heysel, a partire dai quali nacque la Football Supporters Association (FSA) e la strage all’Hillsborough di Sheffield nella quale i tifosi del Liverpool furono protagonisti e 95 spettatori persero la vita schiacciati dalla massa che aveva invaso lo stadio, a portare al pungo di ferro: innanzitutto una politica di repressione con una definizione di reati precisi e delle relative pene, insieme la voglia di ricostruire con il Taylor Report. Quest’ultimo prevedeva che gli stadi fossero ristrutturati eliminando le barriere, seggiolini che sempre piu’ spesso venivano usati come arma e introdotti anche molti box privati. Il tutto sotto l’occhio di telecamere a circuito chiuso capaci di individuare una persona anche fra migliaia e quindi di perseguire i reati.
Con questi interventi, gli stadi si sono trasformati in luoghi di svago e aggregazione con stewards privati a carico delle societa’, proprietarie degli impianti, che si fanno carico anche della sorveglianza, mentre la polizia e’ presente solo all’esterno, a tutela dell’ordine pubblico. Nel 1989 nasce anche la NFIU, la National Football Intelligence Unit, voluta da Scotland Yard: un corpo anti-hooligans con agenti dedicati alle 92 societa’ professionistiche che viaggiano con tifoseria per formare quella banca dati che ad oggi si alimenta anche di un numero verde per le segnalazioni. Le societa’, infine, non possono intrattenere rapporti con i propri tifosi, eccezion fatta per motivi di sicurezza o di prevenzione: niente biglietti, niente tifosi cavalcati ad arte con i media.
Regole semplici che vanno, dunque, dalla certezza e dalla severita’ delle pene per i reati compiuti negli stadi, alla maggiore responsabilizzazione degli attori che di calcio “vivono”. Il legislatore britannico ha voluto, come canta l’inno di una delle squadra piu’ famose della premier “You will never walk alone”, che tutti i team inglesi e la Nazionale tornassero ad essere accompagnati dalla gioia dei tifosi, compresi donne e bambini. La questione Ultra’ ormai si pone come un problema politico e di ordine pubblico insieme. Se i tifosi italiani prendono ad esempio il modello anglosassone, adeguato con le declinazioni guerresche della nostra storia (basta pensare ai nomi con Commando, Falange o Legione), tale modello forse potrebbe essere anche la soluzione per chi nel nostro Paese ha strumentalizzato le tifoserie nel passato nemmeno tanto lontano e lo fa ancora nel presente.
Un celebre antropologo inglese Desmond Morris nello studiare il fenomeno degli Hoolingas in Inghlterra ha elaborato una teoria secondo cui i nostri antenati hanno completato una lunga parabola evolutiva da cacciatori a calciatori e che il calcio abbia la capacita’ innata di “assolvere al bisogno umano di spettacoli di natura drammatica”, esorcizzando pero’ la violenza. E questo sabato all’Olimpico e’ l’elemento che piu’ e’ mancato.
Peppe Caridi