Durante una delle public lecture in programma a Palazzo Bonocore, il fotoreporter internazionale primo premio al WPP 2017 ricorda l’importanza del giornalismo libero e racconta in prima persona la cronaca del suo celebre reportage “An Assassination in Turkey”
PALERMO – “In questa giornata in cui a Palermo si ricorda Mauro De Mauro, cronista rapito da Cosa nostra e mai più ritrovato, noi siamo qui a sottoscrivere l’importanza del giornalismo libero”. Sono queste le prime parole di Burhan Ozbilici, autore del celebre reportage “An Assassination in Turkey – Mevlüt Mert Altıntaş” che ha vinto il primo premio del World Press Photo dello scorso anno. Il fotoreporter, nel giorno dell’anniversario della sparizione del cronista palermitano, ha tenuto una public lecture all’interno di Palazzo Bonocore dove, fino al 7 ottobre, sarà allestita la mostra del World Press Photo che quest’anno ha visto come vincitore Ronaldo Schemidt con “Venezuela Crisis”.
Lo scatto che lo porta a vincere la medaglia d’oro del più importante concorso di fotogiornalismo al mondo è stata scattata dal fotografo turco, che lavora per l’agenzia di stampa Associated Press, durante l’inaugurazione di una mostra ad Ankara il 19 dicembre 2016, dove l’ambasciatore russo Andrey Karlov stava tenendo una conferenza. “Ho scoperto in quegli attimi di avere una forza interiore che non conoscevo, dovevo stare calmo e fare il mio lavoro – racconta Ozbilici -. L’assassino era davanti a me e non sapevo avesse una pistola. Quel pomeriggio alla galleria sono arrivato tardi. Ho visto l’ambasciatore russo parlare, ho pensato fosse una persona importante e volevo fare delle foto e per questo ho indietreggiato. Ho voluto inquadrare lui e ho pensato che quello alle sue spalle fosse la sua guardia del corpo”.
Poi le urla, gli spari, il terrore negli occhi della gente. “All’improvviso, quest’uomo in giacca e cravatta ha iniziato a sparare – prosegue Burhan -. La gente era nel panico, gridava. Questo poliziotto disse in arabo qualcosa di incomprensibile. Poi urlò chiaramente ‘vendetta’, ‘Aleppo’ e infine ‘noi moriamo in Siria voi morite qua’. Ho capito subito che stavo vivendo la storia, che potevo essere ferito e ucciso e che quindi avevo una grande responsabilità. Si vive e si muore, ma dobbiamo vivere con onestà e lasciare qualcosa agli altri. C’era un terrorista davanti ai miei occhi, non ho mai pensato però che fuggire fosse la scelta giusta. Sentivo il mio cuore battere forte. Io però dovevo mantenere la calma senza muovermi in fretta, dovevo spostarmi pian piano. Dovevo scattare”.
Un racconto drammatico quello di Burhan che, per l’AP, ha coperto la crisi del Golfo in Arabia Saudita, la prima guerra del Golfo al confine tra Turchia e Iraq, l’esodo dei curdi in Turchia e il loro ritorno in Iraq dopo la guerra del 1991. “Parlava come fosse un politico – spiega ancora -. Io però non facevo attenzione alle sue parole. Non volevo distrarmi, ero concentrato sui suoi movimenti. Ho avuto paura sparasse ancora. Alla mia sinistra c’erano delle persone. Ho fatto uno scatto, non mi aspettavo venisse fuori una foto così chiara. Un critico americano che scrive per il The New Yorker ha detto che questa foto è come un’enciclopedia di reazioni: ogni persona ha delle reazioni diverse, c’è gente calma e gente che piange. E poi ci sono io”.
Un reportage che vale il primo premio al World Press Photo e anche la vittoria nella categoria Spot News dello stesso anno ma che Burhan Ozbilici non avrebbe mai voluto scattare. “Mi sono sentito molto triste – conclude -. Mi era sembrato un uomo così buono, una povera e innocente vittima. Mi è dispiaciuto come se fosse stato ucciso Dostoevskij, o Tolstoj. Per questo non mi sono tirato indietro e ho fotografato mettendo a rischio la mia vita. Il giornalismo libero deve sopravvivere a tutto. Anche in Italia, dove esistono ancora dei bravissimi cronisti. Alcuni sacrificano la loro vita per catturare la verità e condividerla con noi. E non è un caso se, proprio oggi, siamo qui a parlarne a Palermo”.